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Note su “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin

Walter Benjamin
Walter Benjamin

L’arte e la tecnica, la percezione estetica, la funzione politica dell’arte, più esattamente la politicizzazione dell’arte per combattere l’estetizzazione della politica. Per molti versi si tratta di temi irrimediabilmente invecchiati quando li si osservi come circoscritti all’epoca storica a cui si riferiscono, strumenti di una battaglia allora attuale tra le due avanguardie contrapposte, quella aristocratica del fascismo e quella rivoluzionaria del comunismo. Marinetti contro Brecht, per intenderci, futurismo contro realismo socialista, scontro tra fazioni apertamente contrapposte, scontro di guerra che prevede chiare la vittoria e la sconfitta. E invece così non è stato, da quel conflitto quale debba essere la la funzione sociale della attività artistica non è emerso in modo più chiaro, ma è certo che la fiducia in un’arte il cui agire e significato si tramuti in azione sociale è nozione che ha perduto gran parte del suo significato, inversamente sembra piuttosto che l’altro aspetto, quello dell’estetizzazione o del trasferimento dell’estetica nella vita e nella sua dimensione politica abbia finito per caratterizzare l’epoca contemporanea e che i processi che Benjamin aveva anticipato siano andati in buona misura verificandosi in quell’arte di massa che egli fu tra i primi ad analizzare. E’ a tale aspetto della sua riflessione, ancora attualissimo , che faremo riferimento in questo articolo che apre la nuova serie di contributi sull’estetica e la società del nostro Caffè.

La riproducibilità, secondo Benjamin, distruggerebbe quella che egli definisce “l’aura” dell’opera d’arte. Egli la concepisce come qualcosa di irripetibile che era presente nelle opere antiche, un qualcosa di originario che ne garantiva l’autenticità, proveniente da manipolazioni tecniche che gli dovevano apparire ogni volta uniche e non totalmente imitabili e dal fatto che l’espositività dell’opera, quella che oggi si chiamerebbe la sua fruizione, era limitata a pochi, non percepita come oggi da ognuno e ovunque, come accade per ogni immagine che sia realizzata in serie.

Per chiarezza Benjamin cita ad esempio il simulacro che riposava nascosto nella cella dei templi, che pur visibile per il solo sacerdote possedeva integro il suo valore per tutta la comunità.

La tecnica della riproduzione, afferma Benjamin, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione e la crisi della tradizione è necessaria alla democratizzazione della massa (per i tempi a cui risale lo scritto diremo anche ai movimenti di massa). Agente esemplare di questo fenomeno è il cinema. Per Benjamin il cinema non impone il raccoglimento nell’attenzione estetica, una esigenza che egli ritiene specifica dell’arte tradizionale perché legata al rituale, ma invita ad una sorta di partecipazione che si potrebbe definire, come egli fa, una attitudine alla ricezione sospesa o all’esaminare distratto (oggi si direbbe “effetto subliminale”) che nel contempo sembra poter consentire una maggiore identità dello spettatore con l’opera e, in particolare , l’accesso a quel nuovo modo di percepire la realtà che prima la fotografia e che poi la fotografia in movimento hanno inaugurato presso la grande massa del pubblico. Così il cinema sarebbe diventato lo strumento privilegiato della diffusione della cultura politica democratica tra le masse, ammesso che a utilizzarne le potenzialità fossero forze democratiche anziché oscurantiste. Benjamin si riferiva alle caratteristiche nuove e specifiche della tecnica cinematografica che, come si è visto, fu manipolata con non minore efficacia dai nazionalsocialisti che dai compagni di strada dello stesso autore, anzi, sarà proprio nella Germania dell’epoca che l’arte del film conoscerà le basi delle sue metodologie future.

Le osservazioni di Benjamin sulle peculiarità della tecnica cinematografica sono in effetti illuminanti e vertono sostanzialmente su due aspetti che contribuirebbero a mutare la risposta percettiva dello spettatore nei confronti dell’opera: si tratta naturalmente della illusione di realtà generata attraverso il movimento dalla serie di fotogrammi giustapposti nel montaggio (che Benjamin definisce una “natura di secondo grado”) e la particolare conoscenza empatica che la capacità di indagine della macchina da presa consente attraverso primi piani , ralenti, l’acuta oggettivazione del dettaglio e in genere gli artifici tecnici propri del mezzo, i quali permettono allo spettatore di “entrare “ nella realtà stessa della immagine filmata come a farne parte. A corollario di questa analisi Benjamin osserva, ed è una profonda osservazione, che tutto ciò produce un interscambio tra il film, opera d’arte, e lo spettatore, di un genere che mai prima era avvenuto nella storia della percezione e della società. E’ una questione di distanza: mediante la tecnica cinematografica l’arte perde tutta la sua ieraticità, la sua “aura”,filtrata attraverso il realismo del film,si ravvicina allo spettatore e diviene materialità, fenomeno autenticamente democratico. Similmente egli ritiene debba accadere in letteratura, come in effetti accadrà, quando prevede che nel futuro tenderà a scomparire la tradizionale distanza che separava chi scrive da chi legge e scorge l’origine del processo anche qui di scambio reciproco nell’ abitudine che andava allora diffondendosi di manifestare il proprio pensiero non professionale per mezzo delle lettere al direttore dei quotidiani.

Con queste analisi, benché frammentarie, benché il suo scritto sia datato per altri versi, Benjamin intendeva ottenere una ridefinizione dei rapporti tra arte e comunicazione e arte e società, e alla introduzione di una interpretazione dell’arte arte per le masse che passava attraverso l’abbandono della tradizione, giungendo così al cuore stesso del problema e prefigurando lucidamente quegli scenari futuri che in larga misura si sono venuti poi delineando secondo quanto egli aveva anticipato.

Ciò nondimeno, mentre la sua interpretazione sociologica della attività artistica o del suo futuro fu corretta previsione, potrebbe essere che alcuni suoi concetti di fondo circa la natura dell’arte stessa necessitino di qualche modesta critica e correzione, poiché permane un conflitto tra arte e società che è dubbio affermare la tecnologia, con il suo intervento sull’estetica, abbia potuto nel mondo contemporaneo sanare e, nel medesimo tempo, accade a Benjamin ciò che accade ad altri non specialisti quando trattano delle cose artistiche i quali “ spostando la loro attenzione sul contesto sociale come principale fonte di significato finiscono anche per svalutare le nozioni fondamentali sul valore dell’arte moderna”.

I due criteri a cui Benjamin si affida per illustrare la rottura della continuità tra l’arte antica e quella moderna rispondono, come si è detto, alla perdita di “aura” o di autenticità della prima e alla acquisizione della serialità che caratterizza il prodotto artistico mediante le nuove tecniche di riproduzione tecnologica che condizionano la produttività artistica a venire.

Ma che cosa sarebbe dunque esattamente questa “aura” di cui le opere antiche disporrebbero e che la riproducibilità tecnica avrebbe distrutto? Benjamin la descrive come “ l’hic et nunc dell’opera d’arte la cui esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova” e afferma anche che“ciò non vale soltanto per l’opera d’arte, ma anche e allo stesso titolo, ad esempio, per un paesaggio che in un film si dispiega di fronte allo spettatore, in un processo che investe, dell’oggetto artistico, un ganglio che in nessun oggetto naturale è così vulnerabile, cioè la sua autenticità”. E ancora: “Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi”.

Con ciò Benjamin stabilisce una cesura netta tra l’arte tradizionale e quella moderna (e contemporanea) quando allude ai fenomeni artistici tradizionali come ogni volta unici rispetto a quelli dell’epoca tecnologica che sono invece sempre frutto di replica (nel contesto contemporaneo si perde la distinzione tra originale e copia) e, più ancora, nel citare la vulnerabilità dell’arte come prodotto naturale fissa il motivo del distacco tra l’una e l’altra arte di modo che appare chiaro che cosa in realtà debba ora intendersi per “aura”o meglio, da che cosa scaturisca questa proprietà nell’opera d’arte dell’origine; da nient’altro che il suo rapporto non tecnologicamente mediato tra la genesi della forma stilistica e la sua coesione con la natura come forma. Concetto che ritorna espresso in tutta evidenza in un altro suo saggio sull’argomento sul collezionista e storico dell’arte Eduard Fuchs di cui riporta l’opinione secondo la quale l’arte antica nel suo complesso non fu che il meglio che l’animalità potesse esprimere.

Allo stesso modo accade quando Benjamin fa riferimento alla differenza esistente tra la percezione diretta di un paesaggio e la sua visione filmata dove la contemplazione diretta è null’altro che la contemplazione della natura mentre la sua immagine riprodotta ne rappresenterebbe, e qui Benjamin è involontariamente chiarissimo, “una seconda natura”.

Ammesso che per Benjamin e anche per noi si diano ormai due concezioni distinte dell’oggetto artistico, l’una in cui il rapporto tra manipolazione tecnica e opera si potrebbe definire naturale e l’altro mediato da tecnologie il cui rapporto con la natura s’è irrimediabilmente spezzato; è necessario tuttavia ricordare che nelle interpretazioni sociologiche degli sviluppi dell’arte moderna ricorrono comunque fraintendimenti circa il suo statuto di cui già Benjamin era caduto vittima e che in seguito la critica specialistica ha provveduto a correggere.

Non è vero , per esempio, o almeno non è del tutto vero, che la nascita della tecnica fotografica abbia modificato in modo radicale il processo della creazione artistica. Lo storico dell’arte sa bene che esistono nella storia delle immagini numerosi esempi in cui la concezione dello spazio che in seguito sarà caratteristica della nuova tecnica viene prefigurata e anticipata con opere in cui il cosiddetto “taglio fotografico” si palesa evidente ben prima della nascita della fotografia stessa. Anzi si potrebbe in buona misura dimostrare che è stata spesso l’autonoma ricerca formale dell’artista a contaminarla e a imporre alla fotografia l’applicazione delle sue leggi. Tutto ciò lo si può rintracciare nelle vedute di Canaletto, come nel particolare ordinamento prospettico della stampa giapponese (la cui conoscenza influirà sull’arte moderna ben più della fotografia) o, per fare un riferimento più attuale, nei disegni del fumettista Milton Caniff, le cui chine tracciate a pennello o con la punta di una canna di bambù valsero ad ispirare le immagini di jungla esotica nei films hollywoodiani contribuendo a determinare lo stile a suo modo affascinante di quelle opere di facile consumo.

Discorso non dissimile va fatto per il rapporto tra l’opera d’arte e la serialità della riproduzione. Vi è in effetti già ampia manifestazione di serialità nelle opere dell’arte del passato e tuttavia, non per questo, tali opere manifestano la perdita della loro “aura” originaria. Lo si può affermare a proposito di molta parte delle realizzazioni dell’arte ceramica, sia greca , che orientale, che frutto del meraviglioso arcaismo ripetitivo degli indiani pueblos o hopi. Benjamin soggiace qui al pregiudizio caratteristico di coloro , e sono ancora molti, i quali ritengono che la creatività sia sostanzialmente, in ogni istante del suo agire, non altro che ispirazione e che l’oggetto d’arte sia sempre il risultato dell’associazione di essa con una superata mentalità individualistica. Ma basta per esempio rivolgersi ai rilievi architettonici di un tempio precolombiano o all’iterativo sensualismo, energetico quanto assente, di un edificio di culto indiano, per scoprire di quanta grammaticale ridondanza siano caratterizzate simili opere, nelle quali individualismo, serialità, eccellenza tecnica e rispetto della tradizione si mescolano in un flusso indistinto.Un flusso che a sua volta già possiede quel carattere di narrazione che nel cinema si svilupperà nelle sequenze in movimento.

Dunque né “ l’aura” (qualità che sia detto per inciso non doveva essere percepita dagli antichi di fronte alle loro opere , ma che doveva diventare oggetto di analisi solo dopo la prima teoria del bello in estetica concepita da Winckelmann alla fine dell’epoca illuminista e al sorgere dell’epoca romantica ) né il principio della serialità distinguono in sé per sé l’attività artistica tradizionale da quella dell’era tecnologica avanzata, sono semmai proprio le potenzialità nuove, anche sconvolgenti, di questa tecnologia che appaiono a Benjamin essere dotate di una qualche magia particolare , di un’”aura” speciale. Di quel senso della meraviglia che ha catturato la prometeica psicologia occidentale sin dall’apparire del primo automa di Vaucanson e che oggi è, a tutti gli effetti , la sola vera estetica delle masse. Intendiamo la tecnologia come forma, meglio, come “seconda natura”, piuttosto che tecnologia come medium di un’arte nuova, democratica o meno che sia.

La ricerca artistica intanto ha proceduto per suo conto in quanto autonoma riflessione, con i suoi propri mezzi e i suoi propri linguaggi, basti pensare ad alcune manifestazioni fondamentali dell’arte del novecento, a Paul Klee e alla sua minuziosa analiticità astratta, oppure al versante dell’espressionismo di Jackson Pollock, alla gestualità moderna che si incontra con l’attitudine alla meditazione degli antichi in un riallacciarsi tra tradizione e attualità. A fronte di simili esperienze l’arte che si rifà alla natura biologica dell’uomo non appare del tutto morta e potrebbe sopravvivere solo che l’artista non decida di soggiacere alla meraviglia e allo spavento che la divinità tecnologica gli incute.

Resterebbe dunque , tra le tante altre cose, ancora da fare un commento più approfondito circa quella “seconda natura” generata nella percezione dell’arte dalla forza della tecnologia e soprattutto dalla capacità del cinema e poi di tutti gli altri media visuali a venire di mostrare l’immagine come un vissuto in movimento consentendo allo spettatore di volare sospeso tra le intricate vie della Metropolis di Fritz Lang, ma allo stesso tempo inducendo ciascuno ad allinearsi costretto e confuso tra le masse piegate che popolano quella pellicola, sino all’approdo attuale alla virtualità assoluta, nella quale libertà estetica e condizionamento sociale finiscono per coincidere chimericamente.

E però anche di questa forma di esperienza percettiva, fenomeno che va “oltre lo stesso ambito artistico” vi è almeno (ma non soltanto) un significativo precedente nella storia dell’arte tradizionale e proprio nella pittura da cavalletto con i suoi poveri materiali e metodi di applicazione. La si ritrova nella immagine della sua stanza che Vincent van Gogh dipinse ad Arles, un percorso chiuso di inquietante incertezza realizzato da un artista che disponeva nella retina di un suo grandangolo naturale in grado di rendere dell’immagine vissuta tutti gli aspetti dell’allucinatorietà. Ma questo è in parte già un altro discorso, poiché è in definitiva comunque vero ciò che Benjamin ha affermato circa la “seconda natura” dell’arte scaturita dalle moderne tecnologie, ma questa seconda natura piuttosto che appartenere al mondo della ricerca artistica , tende a fare il suo ingresso in un sentiero i cui meandri oscuri forse l’arte tradizionale aveva saputo meglio illuminare con la lucidità dell’esperienza individuale, il sentiero che conduce al campo ben più vasto del sogno e dell’ inestricabile legame che esso intrattiene con la realtà, per quanto tecnologica e disincantata essa si voglia mostrare.


Walter Falciatore


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La libertà che cambia

La nostra vita ha bisogno di significato, e molto di ciò che avviene nel mondo moderno milita contro questa esigenza. In questi anni prossimi alla fine di un secolo cruciale, c’è la possibilità di migliorare il saldo umano del cambiamento sociale. Chi è disposto ad andare in questa direzione troverà forse di suo genio alcune delle riflessioni contenute in questo libro.

Ralf Dahrendorf, La libertà che cambia (1995)

Con questa frase Dahrendorf conclude la prefazione alla edizione del 1994 del suo testo sull’analisi delle società avanzate contemporanee d’occidente e sulla necessità di un mutamento d’orizzonti del liberalismo, della sua futura prassi, indicando finanche le linee guida di un atteggiamento culturale nuovo che si attagli ad una realtà sociale la cui complessità multiforme vediamo palesemente ogni giorno sottrarsi agli schemi irrigiditi e inadeguati della politica attuale.

Per sua stessa ammissione “La libertà che cambia” non è tuttavia un libro di carattere strettamente politico bensì teorico, ma compare, per nulla invecchiato dal ’79 anno della sua prima edizione tedesca (Dahrendorf lo considerò allora apparso prematuramente) in un’epoca della nostra storia in cui l’immaginazione sociologica, la capacità e la volontà di costruire il mondo, si mostrano come risorse assai carenti in un clima stagnante nel quale sembra sia impossibile andare oltre la gestione dell’esistente, in cui ogni forma di idealità sembra di per se stessa scandalosa se non rivoluzionaria.

In parecchi luoghi del suo testo l’autore tenta di riannodare il legame che in passato comprendeva in un’ unità inscindibile la filosofia politica alla pratica di governo della società e non v’è dubbio che uno dei suoi scopi fondamentali sia proprio quello di riportare il pensiero, il contenuto dei prodotti della mente o di ciò che meglio ancora egli definisce “l’egemonia delle idee nella sfera dell’azione” di modo che questa non finisca per tradursi nell’anomia individuale o per i gruppi dotati di identità in quel disorientamento che è frutto dell’automatismo dell’azione quando non è sostenuta da quel pensiero che egli definisce, come vedremo, di natura rappresentativa. 

Primo passo nell’analisi di Dahrendorf è la definizione del concetto di libertà che anzichè preoccuparsi di illustrare sinteticamente come d’abitudine a partire dal pensiero democratico più antico per giungere alle tesi del liberalismo classico ( libertà come aspirazione alla massima felicità in Aristotele ,libertà come massima utilità in Bentham, libertà come massimo oggettivo benessere nel modo attuale) egli descrive come campo delle possibili chances di vita per ciascun individuo. Questo concetto, quello delle life chances (che noi chiameremo occasioni di vita) egli definisce ulteriormente in modo disgiuntivo come composto da tre essenziali caratteristiche che lo implicano e lo rendono dispiegabile. Si tratta di tre valori specifici: i diritti positivi, la disponibilità di beni, le “legature” (entitlements, provisions, ligatures). I primi due come egli specifica sono attinenti alle opzioni di vita in regime di libertà, il terzo riguarda il significato.

Dopo una ridefinizione, nel rispetto della tradizione liberale, del principio del diritto positivo (entitlement) in quanto appartenente alla sfera dell’individuale in opposizione al dubbio concetto di diritto come fenomeno prevalentemente sociale che ebbe particolare rigoglio durante gli anni settanta e un’analisi dei guasti prodotti negli anni ottanta dalla convinzione secondo la quale al massimo del benessere doveva corrispondere la concentrazione quasi esclusiva sulla disponibilità di beni (provisions) si dedica ad analizzare quello che considera il problema fondamentale degli anni novanta e di quelli a venire, ovverosia a denunciare il pericolo che nel prestare solamente attenzione ai diritti positivi (la cui difesa non è mai comunque da considerarsi scontata) e alla disponibilità di beni si rischi di distruggere :” i nessi più profondi che connettono le persone alle loro comunità” quei nessi che egli chiama legature (ligatures).

Nella prefazione egli commenta in particolare riguardo alla situazione italiana : “…sono venuto sempre più associando il concetto di legature a quello della società civile. Una società civile offre ai propri cittadini una” home”, oltre ai diritti che loro spettano. In Polonia è stata l’incapacità di distruggere la società civile a causare alla fine la disfatta dei comunisti: Certo la società civile non è tutto. L’Italia è un modello di società civile, ma è stata a lungo una società civile senza uno Stato. Almeno, non vi erano strutture che meritino il nome di Stato. Il problema presente dell’Italia è di creare queste strutture senza distruggere la società civile. Tutti coloro che, come chi scrive, amano l’Italia per la sua vitalità e libertà sperano che il grande esperimento di riforma dall’interno abbia successo. Le legature della società civile saranno un fattore determinante.”

Quali sono le condizioni necessarie perché l’individuo nella nostra società possa godere delle chances di vita più ampie possibile? Il concetto viene da Dahrendorf più precisamente delimitato con l’assumere che esse sono “ le impronte della esistenza umana nella società”: definiscono in sostanza fino a che punto l’individuo può svilupparsi e sono la stessa traccia storica dell’evoluzione sociale. Tali impronte (le forme di vita della società) rappresentano dunque per l’autore il grado di misura delle eventualità del progresso possibile, la cui natura va oggi confrontata con il mutare dell’unico tipo di progresso attualmente certo, quello scientifico-tecnologico a cui, per drammatica contraddizione, non corrisponde altrettanto sviluppo etico-morale.

Secondo Dahrendorf per quanto le società moderne abbiano visto maturare, proprio a causa degli squilibri impliciti nel progredire tecnicamente, le proprie tensioni e crisi interne, sembra esserci, a causa della catena ormai consolidata di diritti positivi fondamentali di carattere istituzionale un aumento delle quantità di chances di vita esistenti e del numero di persone per le quali esse sono disponibili ,mentre, d’altro canto, afferma non potersi ignorare che la tendenza alla uniformità delle credenze e dei valori ha condotto ad una riduzione della complessità del sistema di relazioni tra gli uomini che a sua volta conduce invece ad un calo di chances di vita; paradossalmente il sistema di opportunità che si offrono in varietà molteplice nel contesto nel quale viviamo soffre dello stesso vizio di cui sembra essere inficiato il sistema dell’ informazione che ottunde le differenziazioni trasformandosi in un rumore di fondo che tutto permea impedendo di distinguere e di contrassegnare i valori secondo appropriate gerarchie di senso.

Questo è il discorso sulle legature, che altro non sono nel linguaggio di Dahrendorf se non le relazioni umane il cui insieme di legami è stato in gran parte sciolto proprio per poter porre gli uomini in grado di avvalersi delle opzioni offerte dalla società moderna tra le quali la riduzione dei conflitti di classe, la diffusione del sapere e, sempre di più, la mobilità nel mondo del lavoro giocano un ruolo determinante.

Citando una frase del testo di Lionel Trilling “La Letteratura e le Idee” egli ricorda la stessa relazione paradossale del liberalismo con i sentimenti degli uomini, per cui da una parte i liberali vogliono che ognuno sia felice, mentre dall’altra tendono a negare le emozioni nelle loro complete possibilità.

In questo modo Dahrendorf pone l’accento sulla esigenza ormai improcrastinabile che la politica, per essere attuale e ritornare ad avere concreta funzione, possa ampliare il proprio ambito di ricerca a bisogni che nelle società avanzate vanno ben oltre la ricerca del massimo benessere economico. Per dirla con John Stuart Mill : “il principio della massima felicità deve essere riferito non solo a tutta l’umanità, ma, per quanto lo consente la natura delle cose, a tutta la creazione sensibile.”

Questa affermazione dell’autore ne illustra il programma: “Il concetto di cui abbiamo bisogno per definire gli obiettivi sociali e politici di un liberalismo attivo deve ancorare le possibilità di crescita umana a modelli di strutture sociali, senza con ciò dimenticare che la soddisfazione assolutamente personale del singolo resta auspicabile. Noi abbiamo bisogno di un concetto sociale in senso stretto – il che significa necessariamente anche storico- di ciò che costituisce l’essenza delle società umane, vale a dire di un concetto che ci metta in condizione di dare sostanza tanto a teorie sociali della trasformazione quanto alla teoria politica della libertà.”

Altrettanto chiaro è Dahrendorf circa la versione dominante del liberalismo inteso come semplice espressione di libero dominio del mercato:” Io disprezzo quell’atteggiamento negativo che si dice liberale, ma concretamente non è qualcosa di molto diverso dalla difesa degli interessi di posizione dei benestanti.”

E’ evidente dunque quale sia il suo intento: chiarire il concetto di chances di vita come guida per un nuovo liberalismo che possa ricomporre la divaricazione esistente tra le opzioni possibili nel mondo moderno e la difesa del sistema delle relazioni umane.

Poichè l’elemento morale del liberalismo è la convinzione che lo sviluppo delle possibilità dell’individuo rappresenti il fine fondamentale del progresso allora ne consegue che i gruppi, le organizzazioni, le istituzioni sono mezzi finalizzati allo sviluppo individuale. Nelle società avanzate questo principio è minacciato da due tipi di collettivismo: il movimento conservatore con i suoi slogans tipici su legge e ordine che presuppongono un ritorno a posizioni superate e inattuabili per la coscienza moderna e i movimenti rivoluzionari che con le loro parole d’ordine sulla politica fiscale e il controllo degli investimenti si spingono sino ad un egualitarismo terroristico alla Orwell.

Come poi le due tendenze abbiano potuto ricomporsi nel mondo contemporaneo attraverso le politiche socialdemocratiche è illustrato in questo modo dall’autore: “La crescita della produzione richiede unità economiche che non siano più concorrenziali tra loro: tra queste, in importanti settori, la mano pubblica, lo stato. La crescita del reddito reale richiede organizzazioni che, come i sindacati, si avvalgano per parte loro di posizioni di monopolio…la realtà delle moderne economie è un sistema misto di ordinamenti proprietari pubblico-privati e di strutture decisionali oligocentriche.”

In questa situazione “ è possibile cambiare il tema della gestione economica sostituendo a ingenue aspettative di crescita un miglioramenti effettivo della vita degli uomini?”

La risposta di Dahrendorf consiste in due proposizioni che possono apparire estreme ma che sono condizione essenziale per la genesi di un nuovo atteggiamento politico il cui fondamento siano le possibilità di sviluppo individuali di ciascuno: sciogliere il matrimonio che lega liberalismo e capitalismo e considerare d’altro canto come esaurita l’alleanza tra liberalismo e socialismo.

“La quadratura del cerchio” afferma Dahrendorf “che discende necessariamente da queste osservazioni è la creazione di una nuova sfera pubblica , che comprenda singoli e organizzazioni e che tuttavia riconosca il primato dell’individuo, oggi il principale tema irrisolto della politica istituzionale liberale.”

Una adeguata attenzione in questo senso egli dedica ai movimenti e alla loro spinta di opposizione al sistema riconoscendo che: “ …seppure disarticolata, confusa, intricata e difficilmente afferrabile, c’è nella richiesta di una nuova qualità della vita una forza che giustamente i detentori del consenso socialdemocratico sentono come minacciosa. Questa forza può non soltanto sottrarre voti ai partiti del consenso, essa mira al loro cuore, alle ipotesi che stanno alla base del consenso. Vuole cambiare il motivo di fondo e realizzare qualcosa di nuovo: nessuna meraviglia che governo e opposizione, sindacati e associazioni imprenditoriali siano concordi nel condannarla!”

In una situazione del genere rimangono al liberalismo politico due vie praticabili: una è quella della organizzazione di minoranze pensanti composta da quella scarsa percentuale di coloro che diffidano radicalmente delle grandi organizzazioni (che Dahrendorf quantifica nel mondo occidentale attorno al 4, 6 per cento) che promuova la crescita ,l’altra consiste nel riconoscere che oggi il ruolo sociale di ciascuno va oltre l’appartenenza ad una identità rigidamente politica o che, per converso, la politica deve sapersi organizzare per fornire una risposta alle esigenze emergenti di ciascuno.

“ Il compito pratico di un programma liberale del futuro potrebbe essere definito come il tentativo di modificare le condizioni di vita nelle società moderne in modo che un crescente numero di uomini riesca a basare le proprie decisioni politiche non sull’appartenenza a specifiche organizzazioni ma piuttosto su complesse costellazioni di interessi. Questa potrebbe essere addirittura la definizione del liberalismo come programma di un partito di maggioranza.”

Questo impegno è tanto più urgente quanto più si intravede la fine della forza storica del sistema di consenso socialdemocratico nel quale Dahrendorf scorge evidenti i segni di delegittimazione incipiente.

Per seguire ancora l’autore alla lettera: “In un’epoca in cui il grande consenso, nella sua noia, reprime i suoi bisogni di legittimazione, è importante soprattutto comprendere ciò che accade. Se questa comprensione riuscisse, potrebbe diventare essa stessa una forza del mutamento.

Perciò l’impaziente ricerca di comprensione e di progettazione per il futuro diventa il più importante compito liberale.”

Alla radice di questo programma per il futuro assume particolare rilievo la critica che egli rivolge al malinteso senso e scopo dell’uguaglianza che anzichè uniformare le esistenze dovrebbe al contrario saper realizzare diverse vite individuali: “ Nella misura in cui l’uguaglianza domina sia l’agire di coloro cui competono le decisioni sia il pensiero di coloro che su di esse riflettono, si vengono a perdere di vista le differenze, che sole possono dare le più grandi chances di vita al maggior numero di persone; e nella misura in cui, a questa maniera, il pensiero e l’azione politica vengono depauperati, la società si irrigidisce e diventa incapace di creare quel mondo variegato in cui cento fiori fioriscono sullo stesso fertile terreno.”

Altrettanto critico è Dahrendorf per quanto concerne la tendenza a ridurre all’immobilismo i detentori di cariche elettive i quali non possono fare una mossa senza l’esplicito consenso dell’elettorato che li ha designati: “Il delegato…non è soprattutto in condizioni di dirigere, cioè di introdurre il nuovo prima che sia accettato da tutti; gli manca sia l’incentivo sia anche la reale possibilità di prevenire il suo elettorato. Questo è abbastanza grave perchè significa inattività al posto di azione, immobilismo anzichè progresso. Il processo si conclude nella pietrificazione del rappresentante delegato che finisce per diventare il portavoce di una schiera abbastanza piccola di cittadini: non di tutto l’elettorato, ma di un’organizzazione di partito, non della intera organizzazione di partito, bensì solo degli attivisti che si possono permettere incontri frequenti e molte ore per sterili discussioni. Al contrario ci sono molti elementi a favore di una accentuazione della necessità d’iniziativa nei processi decisionali di tutte le istituzioni sociali e di incoraggiamento della iniziativa oltre che della resposabilità.”

L’ultima parte di “La Libertà che cambia” e dedicata da Dahrendorf all’analisi della distinzione tra le attività cosidette legittimative (sostanzialmente di carattere politico) e rappresentative (normalmente inscritte nella sfera propria dell’arte e della cultura).

Delle due attività egli afferma che :”…differiscono da tutte le altre attività dell’uomo per il fatto che la loro unione attua ciò che si può chiamare progresso nelle cose umane.”

Questo a patto però che coloro che operano in questi campi possano scambiare e fondere i propri ruoli. 

Se Albert Camus ha detto, come Dahrendorf ricorda, che: “…l’artista sta in mezzo a tutti, allo stesso livello, nè più in alto nè più in basso, insieme a tutti gli altri che faticano e lottano” è giunto oggi il momento in cui la prassi politica oltre che della funzione legittimativa si faccia carico, o si faccia nuovamente carico, della idealità caratteristica delle attività rappresentative a fronte dei bisogni complessi dell’individuo contemporaneo.

“Chi tenta di trasformare il mondo senza avere una idea della direzione, senza quindi valersi di scoperte ideali, finisce nel migliore dei casi di compiere un “acte gratuite” pieno di buone intenzioni; il che in effetti ci riporta all’antifilosofia del fascismo, dello stalinismo e del terrorismo. Le attività legittimative hanno bisogno dei risultati delle attività rappresentative per qualificare la direzione del mutamento. Le attività rappresentative danno un senso e un programma. Ma esse danno anche qualcos’altro, la speranza e senza speranza non c’è progresso.”

Che la nostra vita abbia bisogno di significato, come s’era detto all’inizio, e che si debba imparare a intendere questa necessità ormai come principio inderogabile del lavoro politico sta forse la lezione più pressante, per quanto difficile da attuare, contenuta nel libro di Dahrendorf di cui abbiamo presentato una sintesi assai parziale a causa della ricchezza e vastità di questa sua opera densa quanto articolata. 

(Walter Falciatore)

Titolo dell’edizione originale: Lebenschancen. Anlaufe zur sozialen und politischen Theorie. 1979, Suhrkamp Verlag , Frankfurt am Main.
Versione italiana 1995 Roma – Bari, Laterza