Quest’anno cade il centenario della nascita di Karl Popper (1902-1994), l’epistemologo e filosofo viennese che ha profondamente influenzato il pensiero del XX secolo. “Il più grande filosofo della scienza mai esistito”, secondo l’ormai classica definizione del Nobel Peter Medawar, è stato soprattutto uno strenuo difensore della non ortodossia e della libertà, in favore di quella ‘Società aperta’ che è anche il titolo di uno dei suo libri fondamentali. Popper attaccò dalle fondamenta le peggiori utopie del secolo, lottando contro i totalitarismi e i suo filosofi. Nel rispetto delle caratteristiche di questa rubrica, abbiamo selezionato dalle sue opere alcuni passi tratti dalle traduzioni italiane, tra le quali segnaliamo Breviario, a cura di Massimo Baldini, Rusconi Editore, 1998. (La Redazione del Nuovo Caffé Letterario)
Testo 1
Io affermo che il nostro mondo, il mondo delle democrazie occidentali, non è certamente il migliore di tutti i mondi possibilie, ma è tuttavia il migliore di tutti i mondi politici della cui esistenza storica siamo a conoscenza. Sotto questo punto di vista sono un ottimista incallito. (Tutta la vita è risolvere problemi, Rusconi, Milano 1996)
L’incontro con il marxismo fu uno dei principali eventi del mio sviluppo intellettuale. Mi insegnò tante di quelle lezioni che non ho mai dimenticato. Mi insegnò la sapienza del detto socratico ‘ Io so di non sapere’. Mi rese fallibilista, e impresse in me il valore della modestia intellettuale. E mi fece sommamente consapevole delle differenze esistenti tra pensiero dogmatico e pensiero critico. (La ricerca non ha fine, Armando, Roma 1976)
Per diversi anni rimasi socialista, anche dopo il mio ripudio del marxismo; e se ci fosse stato qualcosa come un socialismo combinato con la libertà individuale, sarei ancora oggi socialista. E, infatti, non potrebbe esserci niente di meglio che vivere una vita modesta, semplice e libera in una società egalitaria. Mi ci volle un po’ di tempo per riconoscere che questo non era nient’altro che un sogno meraviglioso; che la libertà è più importante dell’uguaglianza; che il tentativo di attuare l’uguaglianza è di pregiudizio alla libertà: e che se va perduta la libertà, tra non liberi non c’è nemmeno uguaglianza. (La ricerca non ha fine, Armando, Roma 1976)
Si dà il caso che io non sia solo un empirista e un razionalista di tipo particolare, ma anche un liberale, nel senso inglese del termine; ma proprio perché sono un liberale, credo che per un liberale poche cose siano più importanti del sottoporre le varie teorie del liberalismo ad un esame critico approfondito. (Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972)
Nell’interesse della pace, sono un avversario del cosiddetto movimento pacifista. Dobbiamo imparare dalle nostre esperienze e già due volte il movimento pacifista ha contribuito a incoraggiare l’aggressore. L’imperatore Guglielmo II, si aspettava che l’Inghilterra, nonostante le garanzie fatte al Belgio, non si decidesse alla guerra proprio a motivo del pacifismo; e analogamente pensò Hitler, nonostante le garanzie fatte dall’Inghilterra alla Polonia. (Tutta la vita è risolvere problemi, Rusconi, Milano 1996)
Il pensatore alla moda è per lo più prigioniero del proprio conformismo, mentre io considero la libertà – la libertà politica così come il pensiero libero e autonomo – uno dei principali valori che la vita può offrirci, se non il principale. Per questo motivo, per molti anni ho cercato di contestare le mode intellettuali nella scienza, e ancor più nella filosofia. (Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano 1975)
Testo 2
La riluttanza ad ammettere che le norme sono qualcosa d’importante e d’irrinunciabile è una delle maggiori fonti di debolezze intellettuali e d’altro genere dei circoli ‘progressisti’ del nostro tempo. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Siamo noi e noi soli responsabili di approvare o respingere certe leggi morali che ci sono proposte, siamo noi che dobbiamo distinguere tra veri profeti e falsi profeti. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Noi abbiamo bisogno di un’etica che disprezzi il successo e il compenso. E un’etica siffatta non bisogna inventarla e non è neppure nuova: è stata insegnata dal cristianesimo, almeno ai suoi inizi. Ed è ancora oggi insegnata dalla cooperazione sia industriale che scientifica del nostro tempo. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Il sacrificio può avere un alto, e anche superiore, significato quando è fatto in maniera anonima. La nostra educazione etica deve seguirne l’esempio. Devono insegnarci a fare il nostro lavoro; a fare il nostro sacrificio per amore di questo lavoro, e non per conseguire lode o evitare il biasimo. (Il fatto che noi tutti abbiamo bisogno di qualche incoraggiamento, speranza, lode e anche biasimo e tutt’altra faccenda). Noi dobbiamo cercare la nostra giustificazione nel nostro lavoro, in ciò che facciamo noi stessi e non in un fittizio ‘senso della storia’ (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Il più importante dei dieci comandamenti dice: Non uccidere! Esso contiene quasi tutta l’etica. Il modo in cui, per esempio, Schopenhauer formula l’etica è solo una specificazione di questo basilare comandamento. L’etica di Schopenhauer è semplice, diretta, chiara. Dice: Non danneggiare nessuno e non offendere nessuno; piuttosto aiuta tutti, per quanto ti è possibile. (Tutta la vita è risolvere problemi, Rusconi, Milano 1996)
L’etica ‘scientifica’ è, nella sua assoluta sterilità, uno dei più stupefacenti fenomeni sociali. Quale obiettivo si propone? Quello di dirci che cosa dovremmo fare, cioè di costruire un codice di norme, su una base scientifica, sicché non abbiamo da far altro che consultare l’indice del codice se ci troviamo di fronte a una difficile decisione morale? Ciò sarebbe evidentemente assurdo, anche a prescindere dal fatto che una realizzazione del genere distruggerebbe ogni responsabilità personale e quindi tutta l’etica. Oppure si propone di fornire criteri scientifici della verità e falsità dei giudizi morali, cioè giudizi implicanti termini come ‘buono’ e ‘cattivo’? Ma è evidente che i giudizi morali sono assolutamente irrilevanti. Soltanto un seminatore di scandali può avere interesse a giudicare gli altri o le loro azioni; “non giudicare” sembra ad alcuni di noi una delle fondamentali e troppo poco apprezzate leggi dell’etica umanitaria. (Possiamo trovarci nella necessità di disarmare e di imprigionare un criminale per impedirgli di ripetere i suoi crimini, ma un eccesso di giudizio morale e specialmente d’indignazione morale è sempre un segno d’ipocrisia e di fariseismo). Così un’etica di giudizi morali sarebbe non solo irrilevante, ma addirittura qualcosa d’immorale. L’importanza decisiva dei problemi morali si fonda, naturalmente, sul fatto che possiamo operare con intelligente preveggenza e che possiamo chiederci quali debbano essere i nostri fini, cioè come dobbiamo operare. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Testo 3
Non si può rendere giustizia a Marx senza riconoscere la sua sincerità. La sua apertura di mente, il suo senso dei fatti, il suo disprezzo per la verbosità, e specialmente la verbosità moraleggiante, hanno fatto di lui uno dei più importanti combattenti, a livello mondiale contro l’ipocrisia e il fariseismo. Provava un bruciante desiderio di andare in aiuto degli oppressi ed era pienamente conscio della necessità di cimentarsi nei fatti e non solo a parole. Essendo dotato di un’intelligenza essenzialmente teorica, consacrò immense fatiche alla messa a punto di quelle che riteneva fossero armi scientifiche per la lotta in vista del miglioramento della sorte della stragrande maggioranza degli uomini. La sua sincerità nella ricerca della verità e la sua onestà intellettuale lo distinguono, a mio giudizio, da molti dei suoi seguaci (benché disgraziatamente non si sia del tutto sottratto all’influenza corruttrice di un’educazione che maturò nell’atmosfera della dialettica hegeliana denunciata da Schopenhauer come “distruttiva di ogni intelligenza”). L’interesse di Marx per la scienza sociale e per la filosofia sociale fu fondamentalmente di ordine pratico. Egli vedeva nella conoscenza un mezzo per promuovere il progresso dell’uomo. Perché, allora, attaccare Marx? Nonostante i suoi meriti, Marx fu, a mio avviso, un falso profeta. Fu un profeta del corso della storia e le sue profezie non sono risultate vere; ma questa non è la mia accusa maggiore. È molto più importante il fatto che egli sviò un gran numero di persone intelligenti portandole a credere che la profezia storica sia il modo scientifico di approcciare i problemi. Marx è responsabile della rovinosa influenza del metodo di pensiero storicista tra i ranghi di quanti vogliono fare avanzare la causa della società aperta. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Marx fu l’ultimo dei creatori dei grandi sistemi olistici*. Dovremmo avere cura di fermarci a questo punto e di non sostituire al suo un altro Grande Sistema. Non abbiamo bisogno di olismo: abbiamo invece bisogno di d’ingegneria sociale gradualistica. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
*Olismo, talvolta usato come ‘onnicomprensivo’, è un termine che designa la tesi epistemologica secondo la quale i sistemi complessi (organismi, menti, sistemi sociali) presentano caratteristiche non possedute dai loro elementi costitutivi: in questi sistemi, cioè, il tutto è maggiore delle parti che lo costituiscono.
L’ “interpretazione materialistica della storia” di Marx, per quanto apprezzabile possa apparire, non deve essere presa troppo sul serio; non possiamo considerarla più che un apprezzabilissimo invito a guardare le cose nel loro rapporto con il proprio sfondo economico. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Marx era un razionalista. Come Socrate e come Kant, credeva nella ragione quale base dell’unità del genere umano. Ma la sua dottrina – che le nostre opinioni sono determinate dall’interesse di classe – accelerò il declino di questa fede. Come la dottrina di Hegel – che le nostre azioni sono determinate da tradizioni e interessi nazionali – così la dottrina di Marx ha finito per minare dalle fondamenta la fiducia razionalistica nella ragione. Così minacciato sia da destra che da sinistra, l’atteggiamento razionalistico nei confronti dei problemi sociali ed economici non poté opporre resistenza quando la profezia storicistica e l’irrazionalismo oracolare sferrarono un attacco frontale contro di esso. Questa è la ragione per cui il conflitto tra razionalismo e irrazionalismo è diventato il più importante problema intellettuale e forse anche morale del nostro tempo. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Testo 4
Sono ben lontano dal difendere la teoria dello Stato di Marx. Soprattutto la sua teoria dell’impotenza di ogni politica e la sua concezione della democrazia misera siano non solo errori, ma errori fatali. Bisogna riconoscere che, dietro queste cupe e ingegnose teorie, stava una cupa e deprimente esperienza. E benché Marx, a mio giudizio, non sia riuscito a capire il futuro che così ardentemente desiderava prevedere, mi sembra che anche le sue teorie sbagliate siano prove della sua acuta intuizione sociologica delle condizioni del suo tempo e del suo profondissimo umanitarismo e senso di giustizia. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Nutrendo un profondo disprezzo per il moralista, che di solito predica bene e razzola male, Marx fu restio a formulare esplicitamente le sue convinzioni etiche. I principi di umanità e di decoro erano per lui cose che non avevano bisogno di discussione, che si dovevano dare per scontate (anche in questo campo era un ottimista). Attaccava i moralisti perché li vedeva come apologeti servili di un ordine sociale che considerava immorale; attaccava gli esaltatori del liberismo, perché si mostravano soddisfatti e perché identificavano la libertà con la libertà formale allora vigente nell’ambito di un sistema sociale che di fatto distruggeva la libertà. Così, per via implicita, Marx ammetteva il suo amore per la libertà e, nonostante la sua propensione come filosofo per l’olismo, egli non fu certamente un collettivista, perché sperava nella “estinzione” dello Stato. La fede di Marx era, a mio giudizio, fondamentalmente una fede nella società aperta. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
La teoria di Marx si può considerare confutata dal corso degli eventi accaduti durante la Rivoluzione Russa. Per Marx i cambiamenti rivoluzionari cominciano alla base; vale a dire: i mezzi di produzione cambiano per primi, poi cambiano le condizioni sociali della produzione, quindi il potere politico, e infine le credenze ideologiche che sono le ultime a cambiare. Ma nella Rivoluzione Russa il primo a cambiare fu il potere politico, e quidi l’ideologia (dittatura più elettrificazione) cominciò a cambiare le condizioni sociali e i mezzi di produzione dall’alto. Per eludere questa falsificazione, la reinterpretazione della teoria marxiana della rivoluzione immunizzò questa stessa teoria contro ulteriori attacchi trasformandola nella teoria ‘volgar-marxista’ (o socioanalitica) che ci dice che “il motivo economico” e la lotta di classe pervadono la vita sociale. (La ricerca non ha fine, Armando, Roma 1976)
In certe circostanze, le idee possono rivoluzionare le condizioni economiche di un paese, invece di essere modellate da queste condizioni. Usando la terminologia di Marx, potremmo dire che egli aveva sottovalutato la forza del regno della libertà e le sue possibilità di conquista del regno della necessità. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Testo 5
Quella che i marxisti definiscono sprezzantemente come ‘mera libertà formale’ diventa base di ogni altra cosa. Questa ‘mera libertà formale’, cioè la democrazia, il diritto del popolo di giudicare e di far cadere il proprio governo, è il solo strumento noto per mezzo del quale possiamo tentare di proteggerci contro l’abuso del potere politico; essa significa il controllo dei governanti da parte dei governati. E poiché il potere politico può controllare il potere economico, la democrazia politica è anche il solo mezzo di controllo del potere economico da parte dei governati. Senza controllo democratico, non ci può essere alcuna ragione al mondo per cui qualsiasi governo non debba usare il suo potere per fini molto diversi dalla protezione della libertà dei suoi cittadini. ((La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996))
La pretesa che, se si vuole sicurezza bisogna rinunciare alla libertà, è diventata uno dei fondamenti della rivolta contro la libertà. Ma non c’è nulla di meno vero. Non c’è, naturalmente, alcuna sicurezza certa nella vita. Ma quel tanto di sicurezza che si può conseguire dipende dalla nostra vigilanza, rafforzata da istituzioni che ci aiutino a vigilare, cioè istituzioni democratiche che hanno il fine, (per usare il linguaggio platonico) di consentire al gregge di vigilare e di giudicare i suoi cani da guardia. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
È assolutamente sbagliato imputare alla democrazia le carenze politiche di uno Stato democratico. Dobbiamo piuttosto imputarle a noi stessi, cioè ai cittadini dello Stato democratico. In uno Stato non democratico il solo mezzo per ottenere ragionevoli riforme del rovesciamento violento del governo e dell’introduzione di una struttura democratica. Coloro che criticano la democrazia in base a considerazioni ‘morali’ non riescono a distinguere tra problemi personali e problemi istituzionali. Dipende da noi migliorare le cose. Le istituzioni democratiche non possono migliorare se stesse. Il problema del loro miglioramento è sempre un problema che riguarda le persone, piuttosto che le istituzioni. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Il cosiddetto paradosso della libertà è l’argomento per cui la libertà, nel senso dell’assenza di qualsiasi controllo restrittivo, deve portare a un’enorme restrizione perché rende i prepotenti liberi di schiavizzare i mansueti. Questa idea, in una forma un po’ diversa e con una tendenza del tutto diversa, è chiaramente espressa da Platone. Meno noto, invece, è il paradosso della tolleranza: la tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi. In questa formulazione, io non implico, per esempio, che si debbano sempre sopprimere le manifestazioni delle filosofie intolleranti; finché possiamo contrastarle con argomentazioni razionali e farle tenere sotto controllo dall’opinione pubblica, la soppressione sarebbe certamente la meno saggia delle decisioni. Ma dobbiamo proclamare il diritto di sopprimerle, se necessario, anche con la forza; perché può facilmente avvenire che esse non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano ripudiare ogni argomentazione; esse possono vietare ai loro seguaci di prestare ascolto all’argomentazione razionale, perché considerata ingannevole, e invitarli a rispondere agli argomenti con l’uso della violenza. Dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti. Dovremmo insomma proclamare che ogni movimento che predica l’intolleranza si pone fuori legge e dovremmo considerare come crimini l’incitamento all’intolleranza e alla persecuzione, allo stesso modo che consideriamo un crimine l’incitamento all’assassinio, al ratto o al ripristino del commercio degli schiavi. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Testo 6
Con l’espressione ‘società aperta’ designo non tanto un tipo di Stato o una forma di governo, quanto piuttosto un modo di convivenza umana in cui la libertà degli individui, la non violenza, la protezione delle minoranze, la difesa dei deboli sono valori importanti. Nelle nostre democrazie occidentali questi valori sono per la maggior parte degli uomini cose ovvie. Il fatto che questi valori siano per noi tanto ovvi è uno dei pericoli che minacciano la democrazia. Pochi infatti riescono a immaginarsi la vita in una società moderna non democratica, quasi sembra loro che non potrebbe esisterne una diversa. (Il futuro è aperto, Rusconi, Milano 1979)
Una società aperta (ossia, basata sulla tolleranza e soprattutto sul rispetto delle opinioni altrui) e una democrazia (ossia, una forma di governo consacrata alla protezione di una società aperta) non possono sopravvivere se la scienza diventa proprietà esclusiva di un gruppo chiuso di specialisti.(Il mito della cornice, Il Mulino, Bologna 1995)
La società magica o tribale o collettivista sarà chiamata anche società chiusa e società aperta quella nella quale i singoli sono chiamati a prendere decisioni personali. Una società chiusa può giustamente essere paragonata a un organismo. La cosiddetta teoria organica o biologica dello Stato può essere applicata in larga misura ad essa. Una società chiusa assomiglia a un gregge o a una tribù per il fatto che è un’unità semiorganica i cui membri sono tenuti insieme da vincoli semi-biologici: parentela, vita in comune, partecipazione agli sforzi comuni, ai pericoli comuni, alle gioie e ai disagi comuni. Essa è ancora un gruppo concreto di individui concreti, legati tra loro non solo da rapporti sociali astratti come la divisione del lavoro e lo scambio delle merci, ma da relazioni fisiche concrete come il tatto, l’olfatto e la vista. E benché una società siffatta possa essere fondata sulla schiavitù, la presenza degli schiavi non presenta problemi fondamentalmente diversi da quelli degli animali domestici. Così mancano quegli aspetti che impediscono di applicare con successo la teoria organica a una società aperta. Gli aspetti ai quali intendo riferirmi sono connessi con il fatto che, in una società aperta, molti membri si sforzano di elevarsi socialmente e di prendere il posto di altri membri. Ciò può condurre, ad esempio, a un fenomeno sociale importante come la lotta di classe. Noi non possiamo trovare niente di simile alla lotta di classe in un organismo. Le cellule e i tessuti di un organismo, che talvolta si dice corrispondano ai membri di uno Stato, possono anche competere tra loro per la nutrizione; ma non c’è nessuna tendenza, ad esempio, nelle gambe a diventare cervello o in altre membra del corpo a diventare ventre. Poiché non c’è nulla nell’organismo che corrisponda a una delle caratteristiche più importanti della società aperta, cioè la competizione tra i suoi membri per il conseguimento per uno status superiore, la cosiddetta teoria organica organica dello Stato è fondata su una falsa analogia. La società chiusa, d’altra parte, non presenta tendenze siffatte in misura rilevante. Le sue istituzioni, comprese le sue caste, sono sacrosante: sono tabù. La teoria organica, in questo caso, si adatta abbastanza bene. Non deve quindi sorprenderci la constatazione che molti tentativi di applicazione della teoria organica alla nostra società sono forme mascherate di propaganda per un ritorno al tribalismo. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
La speranza di ridurre la miseria e la violenza, di aumentare la libertà, fu, ritengo, tra i motivi ispiratori di Marx e di molti suoi seguaci, ed è una speranza che anima molti di noi. Sono convinto tuttavia che questi obiettivi non possono essere realizzati con metodi rivoluzionari. Al contrario, penso che questi ultimi possono soltanto peggiorare le cose, aumentando le sofferenze non necessarie, generando una sempre più diffusa violenza e distruggendo inevitabilmente la libertà. Ciò appare chiaro se ci rendiamo conto che una rivoluzione distrugge sempre l’intelaiatura istituzionale e tradizionale della società. Essa dunque mette necessariamente in pericolo lo stesso insieme di valori per la realizzazione dei quali è stata intrapresa. In realtà, un insieme di valori può avere un significato sociale, solo nella misura in cui esiste una tradizione sociale che li sostiene. Ciò è vero per gli obiettivi che si propone una rivoluzione, come per qualsiasi altro valore. Ma se si comincia a rivoluzionare la società, e a sradicare le tradizioni, non è possibile fermare questo processo se e quando si vuole. In una rivoluzione tutto è messo in discussione, compresi i propositi dei rivoluzionari animati dalle migliori intenzioni; poiché tali propositi sono nati, e sono stati alimentati, dalla società che la rivoluzione distrugge. (Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972)
Il fatto che la gente si abitui a vedere violenza, che essa diventi il suo pane quotidiano, distrugge la civiltà. (L’Informazione Violenta, Società aperta, Roma 1996)
Testo 7
Considero come una sfortuna partiti troppo numerosi; e perciò anche il sistema elettorale proporzionale. E ciò per la ragione che un numero di partiti elevato porta a governi di coalizione in cui nessuno è responsabile davanti al popolo come tribunale, dato che tutto è un compromesso inevitabile. Inoltre sarà proprio molto difficile poter licenziare un governo, se il partito al governo, che non ha più la maggioranza, ha bisogno solo di trovare un piccolo partner di coalizione per poter continuare a governare. Se ci sono pochi partiti, allora i governi saranno piuttosto governi di maggioranza e la loro responsabilità sarà chiara e precisa. E non vedo alcun valore nel cercare di rispecchiare le opinioni della popolazione proporzionalmente nella rappresentanza popolare e non già nel governo, perché lo specchio non può essere responsabile rispetto al suo originale. (Tutta la vita è risolvere problemi, Rusconi, Milano 1996 )
Il potere politico può essere decisivo ai fini della protezione economica. Il potere politico e il suo controllo sono tutto. Al potere economico non si deve permettere di dominare il potere politico; se necessario esso deve essere combattuto dal potere politico e ricondotto sotto il suo controllo. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996)
Ogni opposizione ha la maggioranza che si merita. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996 )
Chi insegna che non la ragione, ma l’amore deve governare, apre la strada a coloro che governano con l’odio. ( Socrate, a mio giudizio, intravide qualcosa del genere quando sostenne che la sfiducia e l’odio per l’argomentazione sono connessi con la sfiducia e con l’odio per l’uomo). Coloro che non si avvedono immediatamente di questa connessione, che credono in un governo diretto dell’amore emozionale, dovrebbero considerare che l’amore come tale non promuove certamente l’imparzialità. E non può neanche eliminare i conflitti. (La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996 )
Uno stato democratico non può essere migliore dei suoi cittadini. (Il futuro è aperto, Rusconi, Milano 1979)
Come ognuno da ‘democrazia’ sta a significare ‘governo di popolo’ o ‘sovranità del popolo’, in contrapposizione ad ‘aristocrazia’ (governo dei miglio o dei notabili) e a ‘monarchia (governo di uno solo). Il significato della parola, però, non ci è di nessuno aiuto. E ciò perché da nessuna parte il popolo governa. A governare sono ovunque i governi. E purtroppo anche la burocrazia, cioè gli impiegati statali, che possono essere soltanto difficilmente o niente affatto richiamati alla loro responsabilità. (Tutta la vita è risolvere problemi, Rusconi, Milano 1996)
Concludendo questa breve rassegna dedicata a Karl Popper pensiamo di fare cosa gradita a chi volesse approfondirne il pensiero segnalare una bibliografia italiana delle sue opere:
Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970
Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972
La logica delle scienze sociali, Einaudi, Torino 1972
Conoscenza oggettiva, Armando, Roma 1975
Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano 1975
Come io vedo la filosofia, in ‘La cultura’ n. 4, 1976
La scienza normale e i suoi pericoli, Feltrinelli, Milano 1976
La ricerca non ha fine, Armando, Roma 1976
Il futuro è aperto, Rusconi, Milano 1979
Alla ricerca di un mondo migliore, Armando, Roma 1989
Poscritto alla logica della scoperta scientifica, Il Saggiatore, Milano 1994
Alla ricerca di un mondo migliore, Editrice Salentina, Galatina 1995
Cattiva maestra televisione, Reset 1994
Il mito della cornice, Il Mulino, Bologna 1995
La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1996
Tutta la vita è risolvere problemi, Rusconi, Milano 1996
L’Informazione Violenta, Società aperta, Roma 1996
NOTA CRITICA
Tra i maggiori filosofi della scienza del secolo XX, Popper ha esercitato grande influenza per la sua concezione fallibilistica della conoscenza e del metodo scientifico. Fin dalla sua prima opera (Logik der Forschung, 1935), sulla base di un’asimmetria tra verificazione e falsificazione, per la quale un numero per quanto elevato di conferme non è mai sufficiente a verificare in modo conclusivo un’asserzione universale (prototipo delle leggi scientifiche), mentre un solo esempio negativo basta a invalidarla, P. ha ravvisato nella ‘falsificabilità’ la caratteristica delle teorie scientifiche (caratteristica che le distingue dalle teorie metafisiche) e nel metodo ipotetico-deduttivo il procedimento tipico della conoscenza scientifica: piuttosto che per generalizzazioni induttive (a cui si riduce per P. il verificazionismo neopositivistico) questa procederebbe tramite ipotesi che vengono sottoposti a ‘severi’ tentativi di falsificazione, consistenti nel saggiarne la validità mediante il controllo delle conseguenze empiriche.
La continua applicazione di tale metodo, implicante o la temporanea ‘corroborazione’ (termine che P. ritiene compromesso con l’epistemologia induttivistica) delle ipotesi o la sostituzione delle teorie falsificate dall’esperienza con nuove teorie, è per P. espressione del carattere mai definitivo del sapere scientifico, ma al tempo stesso garanzia della crescita della conoscenza e del suo indefinito avvicinarsi alla verità.
Critico tanto dell’empirismo quanto del convenzionalismo, P. ha sostenuto la priorità delle assunzioni teoriche rispetto ai dati osservativi, che avrebbero la funzione di controllo delle teorie (razionalismo critico), difendendo una teoria della conoscenza per prova ed errore che è successivamente sfociata in un a concezione evoluzionistica in cui la conoscenza e la stessa attività scientifica sono considerate continue con l’evoluzione naturale (epistemologia evoluzionistica).
L’anti-dogmatismo che informa le tesi epistemologiche popperiane è stato esteso da P. anche alle scienze sociali e alla filosofia politica. Particolarmente note sono le sue obiezioni al marxismo considerato come un esempio di ‘storicismo’ (The poverty of historicism, 1944-45), cioè quel tipo di dottrine metafisiche che pretendono di prevedere il futuro corso della storia sulla base di leggi specificamente storiche, diverse da quelle delle scienze naturali e non soggette a falsificazione.
Sul piano della filosofia politica, la concezione fallibilistica della conoscenza ha condotto P. a una critica del totalitarismo (che avrebbe le sue radici in Platone, Hegel e Marx) a difesa di una ‘società aperta’ (The open society and its enemyes, 1945) dove ogni soluzione politica sia sottoposta al vaglio della critica e dove sia possibile sperimentare, mediante sistemi democratici, nuove soluzioni in grado di correggere gli errori delle precedenti, causati anche dall’evoluzione della società.
Tra le altre opere: Conjectures and refutations, 1963 – in Italia nel 1972. Objective knowledge. An evolutionary approach, 1972 – in Italia nel 1975. Unented Question: an itelectual autobiography, 1976 – in Italia nel 1976). The self and its brain, 1977- in Italia nel 1981. Postscript to “The logic and scientific discovery”, 1982, ’83 – in Italia nel 1984.
BIOGRAFIA
Karl Raimund Popper, tra i maggiori filosofi della scienza del secolo XX, nasce il 28 luglio 1902 a Himmelhof , nei pressi di Vienna, da una famiglia di origine ebraica. Il padre, Simon Siegmund Carl, è un notissimo avvocato viennese. La madre, Jenny Schiff, gli trasmette la sua passione per la musica. Figlio minore, Popper ha due sorelle, Emilie Dorothea ed Anna Lydia, quest’ultima autrice di successo di storie sentimentali.
A sedici anni decide di abbandonare la scuola, a suo avviso “ore e ore di tortura disperata”, ma si presenta comunque all’esame di Maturità da privatista per conseguire il diploma. Nel 1918 frequenta l’università di Vienna. Dalle scuole secondarie è membro dell’associazione degli allievi socialisti. “Per due o tre mesi mi considerai comunista, ma ne fui presto disincantato. L’incidente che mi mise contro il comunismo, e che presto mi portò lontano dal marxismo, fu uno degli avvenimenti più importanti della mia vita”. L’ ‘incidente’ di cui parla accade il 15 giugno 1919 a Vienna: durante una manifestazione di giovani comunisti e socialisti vi sono scontri con la polizia che provocano 20 morti e 70 feriti. Questi fatti inducono Popper a riflettere profondamente sul marxismo. Gli appare come un ‘credo pericoloso’, ‘dogmatico’, pieno di ‘lacune’, ‘scappatoie’ e ‘incoerenze’. Per qualche anno ancora resterà socialista, per poi approdare al liberalismo.
Venticinquenne è ‘abilitato’ come assistente sociale dall’Istituto pedagogico di Vienna dove, tra l’altro, incontra Josephine Anna Henninger, sua futura moglie: “Uno dei più severi giudici del mio lavoro”. L’anno dopo, nel 1928, si laurea in Filosofia ed inizia a lavorare come insegnante di matematica e fisica nelle scuole medie.
Questi sono gli anni in cui nascono le prime teorie popperiane stimolate dal Wiener Kries, il Circolo di Vienna, che si riuniva tutti i giovedì sera in un caffè della capitale austriaca, formatosi intorno al 1923 per opera di M. Schlick, un professore di filosofia delle scienze induttive. Era la casa del neo-positivismo di inizio secolo, movimento in polemica contro la metafisica in quanto pretenderebbe di dimostrare l’esistenza di entità al di là dell’esperienza. Popper, le cui teorie erano una chiara alternativa a quel movimento, non si sentì mai membro del circolo. Per contro, i membri del circolo (Hans Hahn, Rudolf Carnap, Herbert Feigl, Otto Neurath, Kurth Gödel e Alfred Tarski) non ritenevano Popper ‘uno di loro’ al punto che Otto Neurath alla domanda “Chi è il più grande vostro oppositore?” aveva risposto senza esitazione: “Karl Popper”.
Però la loro onestà intellettuale era tale che proprio Herbert Feigl, uno dei maggiori esponenti del Kries, convinse il giovane Popper a raccogliere le sue idee per poi pubblicarle in un libro, edito poi nel 1934 (“Logica della scoperta scientifica”), che richiama l’attenzione del mondo filosofico europeo su di lui.
In congedo dall’insegnamento, Popper tiene, nel biennio 1935-1936, numerose e seguitissime conferenze in università e college inglesi che gli garantiscono fama internazionale. Indotto dall’incombente nazismo alla fuga dall’Austria, emigra in Nuova Zelanda dove gli viene offerta la cattedra al Canterbury University College di Christchurch.
Non senza difficoltà Popper riesce ad inserirsi nel tessuto sociale del posto e, non a caso, questi sono gli anni in cui nascono e si rafforzano gran parte delle teorie del filosofo. Nel 1938 infatti, sotto la profonda impressione generata in lui dall’occupazione nazista dell’Austria, decide di scrivere ‘La miseria dello storicismo’ e ‘La società aperta’, due capisaldi del suo pensiero, concepiti come “una difesa della libertà contro le idee totalitarie e autoritarie”.
Lascia la Nuova Zelanda nel 1946 per accettare un lettorato presso la London School of Economics and Political Science dove, nel 1949, diventa direttore del neonato Dipartimento di Filosofia. Nel 1946 è pubblicato ‘La società aperta e i suoi nemici’, recensito in Italia nello stesso anno da Norberto Bobbio.
Nel 1950 si reca per la prima volta negli Stati Uniti che gli avevano rifiutato nel 1943 la pubblicazione di ‘La miseria dello storicismo’ e de ‘La società aperta’. Tiene varie lezioni e conversazioni in Usa. A Princeton incontra Albert Einstein. Alla metà degli anni Cinquanta è Visiting Professor di molte università europee e sarà anche ‘socio esterno’ dell’Accademia dei lincei’. Nel 1957 pubblica l’importante saggio ‘Miseria dello storicismo’.
Nell’ottobre del 1961 si tiene a Heidelberg il congresso sociologico tedesco che vede riuniti alcuni tra i maggiori esponenti della cultura filosofica del Duemila. In questa occasione, e nel successivo incontro di Tubinga, Si scontrano le tesi del razionalismo critico, presentate da Popper e Albert e quelle della Scuola di Francoforte incarnate da Adorno, Orkheimer e Habermas.
Gli anni Sessanta rappresentano uno dei periodi più fecondi per la divulgazione dell’opera di Popper, che riceve il titolo si baronetto nel ’65, e abbandonerà l’Istituto e l’insegnamento nel 1969. Alla morte della moglie, nel 1985, Popper lascia anche la casa nel Buckinghamshire per trasferirsi definitivamente a Kenley (Londra).
Muore il 17 settembre 1994. Per sua volontà le ceneri sono tumulate al Lainzer Friedhof, un piccolo cimitero di Vienna.