Presentiamo una piccola antologia ragionata degli scritti politici dello storico torinese Franco Venturi. Gran parte del materiale qui proposto è tratto dal recente libro postumo “La lotta per la libertà” (1996) che raccoglie, curati da Leonardo Casalino, una vasta parte degli scritti politici di Venturi risalenti agli ultimi anni del fascismo fino al primo dopoguerra. La scelta di concentrare l’attenzione sugli scritti politici, che sono anche scritti giovanili, nasce dal grande interesse che da essi scaturisce sia dal punto di vista dell’attualità dei temi, sia dall’approccio teorico e metodologico che illumina in maniera significativa i successivi studi storici.
La presente antologia non ha e non può avere grandi velleità, al momento ha il solo scopo di presentare e diffondere su internet la figura di un grande storico, il cui pensiero riteniamo debba essere attentamente valutato alla luce di quanto oggi sta prevalendo in termini di indirizzi politici e culturali, dentro e fuori le università.
Infine, questo piccolo spazio è anche un riconoscimento personale del sottoscritto, che di Venturi è stato assiduo frequentatore dei suoi ultimi quattro corsi all’Università di Torino. Corsi accademici la cui frequentazione era “privilegio” di pochissimi studenti, in anni, del resto, nei quali si stavano imponendo le mode negli studi storici. Del resto Franco Venturi, come osserva Casalino nella sua biografia, la battaglia politica l’aveva persa nel 1954 come molti socialisti “vittime” sia del fascismo che dello stalinismo, possiamo aggiungere noi. A lui non restava che compiere la scelta di dedicarsi allo studio per partorire un monumentale lavoro di ricerche sulle origini del pensiero e dell’azione riformista nel Secolo dei Lumi e porlo a disposizione delle generazioni future. Il tutto con una volontà che allora mi pareva pari solo allo scettico pessimismo che spesso esprimeva. Solo oggi, anche alla luce di questi scritti politici, ci si può rendere conto che l’attualità del suo lavoro è ben lungi dall’essere posta nella giusta considerazione e valorizzazione.
Luca Guglielminetti
Gli Italiani
Basterebbe che ogni italiano, in una di quelle domande rivolte alla propria coscienza che neppure il fascismo può impedirgli di porsi, si chiedesse di che razza è, da dove viene il colore dei suoi occhi o della sua pelle, perché l’ “antica purezza del sangue” proclamata dal Ministro della Cultura Popolare prenda un aspetto assurdo. Abitante di grandi porti che sono comunità viventi di tutte le genti, contadino di quelle campagne del sud, da cui tanti sono partiti emigranti per il mondo per tornare africanizzati, americanizzati, europeizzati, abitanti di quelle isole che sono state fecondate dalle più diverse civiltà, e percorse dai pirati di tutte le coste, lavoratore di quel nord d’Italia che da tanti secoli è uno di quei centri in cui l’Europa si è riconosciuta nella sua multiforme varietà, tutti gli italiani portano in se stessi le tracce delle “razze” dei quattro punti cardinali.
(1938, in “Giustizia e Libertà”)
F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pag.123
Il Risorgimento
(…)Aggiungo subito, a scanso di interpretazioni malevole, che per noi non si tratta evidentemente di presentarci come gli eredi del Risorgimento, né tanto meno di spolverare vecchie bandiere (Dio e Popolo, per esempio), nè di considerare il Risorgimento come un tutto che si deve accettare per intero, ma di vedere ciò che negli ideali e negli uomini del Risorgimento può essere ancora animatore per noi. Le formule sono morte, gli involucri sono spezzati, i problemi cambiati, ma lo spirito che li spingeva dovrebbe spingere anche noi.
Così, per esempio, mi pare assolutamente necessario sentire il valore morale che ebbe una formula quale quella dell’Unità, come oggi quella della Libertà. E’ una forza contro gli scettici di tutte le specie, un punto fisso, una guida. Quando si dice “Libertà” di fronte a quelle macchine enormi che sono gli stati fascisti, ci si deve sentire sorretti, aiutati da quella forza che diceva “Unità” di fronte ai mille tentativi di escamotage, di falsificazione del problema italiano del secolo scorso.(…)
Dal Rinascimento l’Italia aveva posto al centro i problemi artistici, letterari, culturali. Il merito del Risorgimento è stato quello di porre anche se in modo insufficiente, i problemi politici e sociali sentendone il valore morale e magari religioso. Il problema non si risolve con tentativi artificiosi di uscire da questo piano, ma ricercando su questo piano quelli che sono oggi i valori reali ed essenziali.(…)
(1935, in “Giustizia e Libertà”)
F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pag.33 e 34
La Chiesa
Il metodo del gentil simbolismo è veramente splendido.
La società di Gesù si sente evidentemente rinascere ancora di fronte a quella foresta di aggrovigliati e politici simboli e miti fascisti. E riprende quel metodo e quel cammino che usò secoli or sono con i bramani o i confuciani per convertirli al cattolicesimo. Dal fatto, al simbolo; dal simbolismo al gesuitismo: la strada è larga e ben segnata, e la società di Gesù vi si precipita.(…)
Ecco il benestare dei Gesuiti al fascismo, visto dall’alto di una lunga e annosa esperienza come un giovane pargolo che malgrado qualche scappatella, malgrado qualche esagerazione, è veramente un buon ragazzo e pieno di riverenza e di rispetto per chi la sa più lunga ed ha maggiore autorità.(…)
Il che è un modo, seppur gentilmente simbolico, di dire al fascismo che non ha assolutamente nessuna originalità di pensiero, che quel poco di cui si era ammantato gli veniva da fonti estranee e che ora, riconosciuta la sua sterilità fondamentale farebbe bene a decidersi ad entrare una volta per tutte nelle braccia della chiesa che, come è noto, non ha altra fame che di delusi, di scettici e di increduli purché ben decisi a rassegnare nelle mani di lei la soluzione dei loro dubbi..(…)
Insomma non dovrebbe più essere permesso oggi ancora pensare differentemente dalla “Civiltà Cattolica”.
(1937, in “Giustizia e Libertà”)
F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pagg 106 e 108
La Scuola
La decadenza della scuola media è diventato ormai un ritornello nella bocca di quelli che si occupano di cose italiane. Anche i giornalisti fascisti non tengono più nascosto simile fatto di dominio comune.(…)
Ecco il risultato di aver voluto dare un’importanza artificiosa allo studio del latino e di aver voluto imporlo dappertutto. Questa lingua torna ad essere, ora, (…) una lingua da preti.
(1937, in “Giustizia e Libertà”)
F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pag. 98
(…)Vivo ora in Italia, in un paese cioè in cui se un giovane vuol poter entrare in una università dove si studia la storia, poniamo, ad esempio, dell’intellingencija russa o del movimento operaio europeo, è tenuto a fare un liceo in cui leggerà obbligatoriamente, sul testo originale, le poesie non soltanto di Orazio, ma anche quelle di Anacreonte. E questo poprio nel paese, in Italia, in cui gli illuministi settecenteschi, grandi o piccoli, accanto alla critica della legge, della tradizione romana cominciarono a criticare anche l’insegnamento obbligatorio del latino. Evidentemente, in Italia, il classicismo ha vinto, per delle ragioni che non è il caso di esaminar qui. Quel che è certo è che il rapporto fra la tradizione umanistica e le realtà politiche, sociali, è evidentemente molto più complesso di quel che può apparire a prima vista. La permanenza di miti umanistici, la sopravvivenza degli dei antichi può non essere affatto una presenza, un’identificazione, come addirittura sostiene Peter Gay. E’ talvolta un ornamento, non una realtà, una superstizione, non una religione.(…)
F. Venturi, UTOPIA E RIFORMA NELL’ILLUMINISMO, Torino 1963, Einaudi
Il Secolo dei Lumi
I Philosophes.
(…)I tecnocrati sono in realtà un partito che si maschera dietro la tecnica o dei tecnici che la situazione costringe ad assumere il compito dei politici? Non è forse meglio tornare ad interpretare gli enciclopedisti come dei philisophes e dei riformatori, della gente che viveva per le proprie idee e che trovò una strada per modificare la realtà che li circondava? La loro storia resta quella dei loro programmi e delle loro lotte.(…)
F. Venturi, Utopia e riforma nell’illuminismo, Torino 1963, Einaudi
L’Enciclopedia
(…) I primi due volumi dell’Enciclopedia sono ancora quasi esclusivamente l’opera di giovani poco noti, socialmente al margine della società ufficiale, spesso personalmente poveri o bohémes, circondati spesso da quella fama di increduli e di atei che è l’aspetto più visibile, più superficiale talvolta, della loro intima rottura con le tradizioni, le convenzioni, con il mondo che li circonda.
Superata la crisi del 1752 collaboreranno all’Enciclopedia Voltaire e Montesquieu, quasi a riallacciare con i loro grandi nomi l’illuminismo della prima metà del secolo con quello per tanti aspetti diverso di Diderot, di Jean-Jacques Rousseau, con il materialismo di d’Hobach, l’utilitarismo di Helvétius e il nuovo pensiero economico dei fisiocratici.(…)
F. Venturi, Le origini dell’Enciclopedia, Torino 1940-1946, Einaudi
Socialismo
La fase realizzatrice del socialismo che è la nostra, le esperienze della Russia, delle sconfitte, del fascismo e del Fronte Popolare non permettono dunque più di pensare il socialismo nei termini di vent’anni fa. La critica dei fatti è stata potente e renderà vana ogni speranza di ritorno indietro. Il problema dei rapporti del socialismo con la democrazia e la libertà, del classismo con i compiti di ricostruzione che ci attendono, dello stesso ideale statalista, tecnicista e burocratizzante che caratterizzava non poca parte del socialismo dei nostri padri con le moderne esigenze della politica è ormai posto dai fatti stessi. O il socialismo farà il necessario passo avanti anche sul terreno delle idee e degli ideali ed abbandonerà tutto quanto in lui è definitivamente morto, o esso farà fallire quella rivoluzione che è già nelle cose e che attende la nostra opera cosciente per uscire alla luce.(…)
L’eclettismo è la macchia d’origine di troppi critici moderni del socialismo. Ma è eclettismo che nasce dalle cose stesse, dall’epoca del Fronte Popolare, in cui internazionale e azione, classe e democrazia si sovrapponevano senza interne revisioni. E’ la tattica dell’alleanza di classe portata sul terreno ideologico: accettare, oltre il socialismo, “anche” la democrazia, la libertà e magari l’umanesimo. Finiti dunque male non perchè critici, ma perchè non hanno criticato sufficientemente a fondo e cioè non hanno capito la necessità della revisione di alcuni presupposti fondamentali della tradizione socialista. Mancanza di coraggio che si è tradotta, sul terreno pratico, nella rinuncia a combattere di volta in volta i nemici più duri del socialismo.(…)
Il socialismo moderno non può non essere profondamente antitotalitario.(…)
(1943, in “Quaderni dell’Italia Libera”)
F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pagg 246 e 250
Biografia
Franco Venturi è nato a Roma nel 1914 ed è morto a Torino del dicembre 1994. Con una differenza di soli tre anni la sua vita ha percorso lo spazio cronologico (1914-1991) che Eric Hobsbawn ha indicato per definire il suo Secolo breve. (1) Questa raccolta di Scritti politici permette di ripercorrere una parte importante della sua vita, in cui la ricerca intellettuale si è strettamente intrecciata con l’impegno politico e che Venturi non ha mai raccontato apertamente.
Venturi nacque da Ada Scaccioni e Lionello Venturi.
La famiglia era originaria di Modena e il nonno, Adolfo Venturi, aveva ricoperto a Roma la prima cattedra di Storia dell’Arte in Italia e inoltre aveva dato vita alla Scuola di perfezionamento per la formazione del personale per i musei e le sovraintendenze (1896) e aveva ideato nel 1888 l’Archivio storico dell’Arte che prese il nome di “Arte” nel 1898 -, la prima rivista d’arte di rilievo europeo”.(2) Lionello, invece, negli anni giovanili era stato ispettore delle gallerie di Venezia, Roma e Urbino e nel 1915 aveva vinto il concorso alla cattedra di Storia dell’Arte dell’Università di Torino. E a Torino era diventato punto di riferimento importante per molti giovani democratici. L’ambiente familiare, colto e antifascista, non poteva non incidere sulla formazione del giovane Franco. Al liceo D’Azeglio entrò in contatto con i gruppi clandestini antifascisti e in particolare con quello di “Giustizia e Libertà”. Gli esponenti più importanti del gruppo erano Aldo Garosci, Mario Andreis e Luigi Scola. L’attività di questo nucleo giellista si svolse nelle scuole e all’Università, con la diffusione di volantini e l’affissione di manifestini. A queste iniziative aderirono anche famosi intellettuali come Carlo Levi, Barbara Allason e Augusto Monti, attraverso il quale rimaneva vivo il ricordo dell’esperienza gobettiana che Venturi non aveva potuto conoscere.
Tra il novembre 1931 e il gennaio del 1932 il gruppo cadde nella rete repressiva dell’Ovra e lo stesso Venturi fu fermato e poi rilasciato. Anche a seguito dell’arresto del figlio, oltre che per il suo rifiuto di prestare giuramento di fedeltà al fascismo (uno dei soli 13 su circa 1200 professori universitari), Lionello decise di emigrare in Francia con la famiglia, trasferendosi a Parigi nella primavera del 1932.(3) Qui Franco, diciottenne, si iscrisse alla Facoltà di Arte della Sorbona e iniziò la sua attività antifascista. A casa del padre entrò in contatto con l’antifascismo italiano in esilio: Salvemini, Nitti, Garosci. All’Università con intellettuali radicali come David e Elie Halévy. Ma l’incontro più importante fu certamente quello con Carlo Rosselli, il fondatore del movimento “Giustizia e Libertà” a cui Franco aderì. La prima parte del volume raccoglie una scelta degli articoli che egli pubblicò tra il 1933 e il 1940, firmandosi con lo pseudonimo Gianfranchi, su “I Quaderni di Giustizia e Libertà” e sul settimanale “Giustizia e Libertà”. Inoltre, dopo la morte di Rosselli, egli continuò sul settimanale la rubrica “Stampa amica e nemica” con il nome di Libero Venienti. Si trattava di una rubrica settimanale in cui, attraverso il commento della stampa fascista e internazionale, Venturi si occupava dei temi a lui più cari, come la critica feroce della politica culturale e coloniale del fascismo, del dibattito internazionale sul socialismo, della polemica – come si noterà negli articoli qui scelti – verso l’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti delle dittature fasciste in Europa.
Il suo primo intervento di carattere politico apparve sul nono “Quaderno di Giustizia e Libertà” nel novembre 1933. Si intitolava “Nuova Spagna” (4) e Venturi definiva la rivoluzione spagnola come la rivoluzione delle “élites dirigenti”. L’origine di questo processo veniva indicata nel 1898, nella guerra contro gli Stati Uniti con cui la Spagna aveva perso le sue colonie d’oltremare. Era da allora che gli intellettuali spagnoli avevano iniziato a interrogarsi sulla loro nuova identità nazionale e culturale. In una lettera a Rosselli del dicembre 1933 Emilio Lussu esprimeva giudizi molto severi sugli articoli del “Quaderno” n.9, ma salvava soltanto l’articolo di Venturi: “Il giovane Lanfranchi – affermava Lussu – ha fatto un bello studio. Naturalmente incompletissimo, ma rivela ottime qualità. Bisogna fargli i complimenti”. (5)
Nell’analisi del contributo di Venturi all’organizzazione e alla definizione della linea politica di “Giustizia e Libertà”, della sua posizione all’interno del gruppo dirigente e nel dibattito sulle prospettive di lotta, della sua collaborazione giornalistica e del suo lavoro di redattore del settimanale “Giustizia e Libertà”, su tutto risalta l’inscindibile nesso tra riflessione storica e impegno civile, di cui sono esempi chiarissimi gli articoli su Bonarroti, Campanella, “Il fascismo contro Paoli” o l’ultimo, del luglio 1939, su “La Rivoluzione Francese e l’Italia”. Da questo punto di vista il dibattito sul Risorgimento (“Sul Risorgimento italiano” e “Replica di Gianfranchi” dell’aprile-maggio 1935) che si svolse sulle colonne del settimanale, è di gran lunga il più ampio e articolato tra quanti sviluppatasi nell’esilio antifascista. L’origine era dovuta ad una provocazione di Andrea Caffi, il rivoluzionario italo-russo, che sul numero di “Giustizia e Libertà” del 29 marzo 1935 aveva affrontato la questione del rapporto tra l’antifascismo giellista e la tradizione risorgimentale, rifiutando decisamente le necessità di un richiamo alle “sacre memorie” del Risorgimento italiano, definendolo un “residuo di vanità nazionale da mettere in soffitta”. Per Caffi il Risorgimento aveva racchiuso in un ambito nazionale fermenti e aspirazioni, pure esistenti, di più ampio respiro europeo e tutte le sue correnti, compresa quella democratica mazziniana, erano state impermeabili a una questione sociale già allora presente, come gli stessi studi di Nello Rosselli dimostravano. Gli esiti non potevano non essere quelli di un Risorgimento, “addomesticato, deviato, confiscato da profittatori equivoci”, che determinò “un disagio sociale ed un marasma della vita intellettuale in Italia, che hanno avuto per sbocco (tutt’altro che inaspettato) il fascismo”.(6)
Caffi dunque delineava un processo di sostanziale continuità tra la compagine statale prodotta dal Risorgimento e il fascismo, in ciò sostenuto anche da Nicola Chiaromonte, che intervenendo il 19 aprile 1935, a firma Luciano, dichiarava la propria esplicita avversione non soltanto al processo risorgimentale, ma al Risorgimento in sé, nel suo principio animatore: Chiaromonte usa l’espressione “impeto nazionale”, che ha deviato, pervertendola, ogni aspirazione alla libertà e alla democrazia.(7)
Santi Fedele ha spiegato l’evidente inaccettabilità di posizioni siffatte per un movimento come GL, il cui stesso motto “Insorgere-Risorgere” denota una chiara derivazione risorgimentale e nei cui fogli di propaganda è facile trovare il duplice accostamento tra fascismo e antirisorgimento e tra movimento antifascista e Secondo Risorgimento d’Italia.(8) La difesa del Risorgimento venne assunta da Rosselli e Franco Venturi. Rosselli stabilì una netta contrapposizione tra il “mito ufficiale e scolastico” del Risorgimento elaborato quell’ “Italia savoiarda, moderata, filistea”, sortita dal processo risorgimentale, e la tradizione popolare, democratica e repubblicana impersonata, nelle sue diverse espressioni, dai vari Mazzini, Cattaneo, Ferrari, Pisacane, Montanelli ecc., per i quali il problema dell’indipendenza non fu mai disgiunto da quello sociale, ma anzi “concepito come auto-riscatto del popolo non da una servitù altrui, ma da una servitù sua propria, morale, politica, economica”. Il Risorgimento come potenziale idea-forza ispiratrice della lotta politica andava pertanto, allo stesso tempo rigettato e accolto. Rigettato nei suoi esiti statuali, di cui il fascismo costituiva la degenerazione progressiva, ma accolto invece nel suo carattere rivoluzionario. Se non si fosse operata questa distinzione e si fosse rigettata in toto la tradizione risorgimentale, si sarebbe relegata alla storiografia sabauda e alla propaganda fascista in monopolio dello sfruttamento del mito risorgimentale.(9)
Se l’intervento di Rosselli risentiva delle preoccupazioni politiche di mediazione interna al movimento, Venturi, studioso poco più che ventenne, impostava la questione in termini prevalentemente storiografici, rifiutandosi di contrapporre al mito ufficiale e scolastico del Risorgimento un antimito negativo altrettanto mistificante, distinguendo tra quanto di localistico vi fu nel moto risorgimentale e quanto di autenticamente europeo, espressione cioè dello “spirito di libertà che animò il XIX secolo”. Richiamandosi esplicitamente ai contemporanei studi pubblicati da Adolfo Omodeo nella crociana “La Critica” (10), Venturi rifiutava il metodo di valutare avvenimenti e correnti politici col sistema del “vedere come sono andati a finire”: i successivi sviluppi dello Stato italiano non potevano proiettare l’ombra del discredito e della condanna a posteriori sulla passione unitaria che animò il Risorgimento nazionale.
Carlo Rosselli aveva intuito la vocazione profonda di storico e non di militante politico che animava il giovane Venturi (11), il quale aveva acquistato una solida preparazione storiografica nei corsi della Sorbona, dove frequentò le lezioni di Hazard, Glotz, Guignebert, Hauser, Renouvin, Mornet e Bèdarida. Ma sarebbe difficile capire la diversità e l’innovazione di un volume come la Jeunesse de Diderot (12), senza tenere conto di una dimensione come quella dell’incontro con uomini come Elie Halévy, il grande studioso del radicalismo e de L’ère des tyrannies, ma anche Salvemini, Rosselli e il pensiero di Piero Gobetti, a cui il riferimento era diretto nella monografia su Francesco Dalmazzo Vasco del 1940.(13)
Gli studi sull’Illuminismo proseguirono parallelamente alla sua attività politica, che divenne più intensa dopo l’uccisione di Rosselli del 9 giugno 1937. Il 14 maggio 1940 le truppe tedesche entravano a Parigi. L’emigrazione italiana antifascista si disperde. La famiglia di Venturi è già partita per gli Stati Uniti (14), Franco invece è rimasto a Parigi. Vuole assistere all’ingresso dei nazisti e solo dopo pensa di raggiungerla. Ma sfortunatamente non riesce ad arrivare in Portogallo, da cui doveva imbarcarsi : riconosciuto in Spagna viene denunciato da una spia. Arrestato viene gettato per circa un anno e mezzo in un carcere franchista, il sotterraneo di un convento, dove in un clima soffocante o rigido a seconda delle stagioni, gli oppositori del regime franchista venivano ammassati, senza neppure lo spazio per distendersi e costretti a cantare inni religiosi se volevano mangiare. I reclusi mancavano di tutto, nada era il vocabolo con cui si indicava l’assenza drammatica del cibo, e Nada sarà uno dei nomi di copertura che Venturi adotterà nella clandestinità italiana. Ai primi di marzo del 1941 fu consegnato al console italiano a Barcellona, trasportato a Genova e di lì a Torino, dove fu interrogato il 17 marzo (15). Dopo altri due mesi di carcere a Torino fu infine assegnato al campo di concentramento di Monforte Irpino, dove giunse nei primi giorni di maggio. Qui egli riprese subito a lavorare e, pur nelle difficili condizioni in cui si trovava, tradusse la herderiana Auch eine Philosophie der Gershichte, propostagli da Federico Chabod e pubblicata alcuni anni dopo la guerra. Con la famiglia lontana il suo punto di riferimento divenne Luigi Salvatorelli, che viveva a Torino. Salvatorelli, negli anni difficili dopo l’espulsione dalla carica di vicedirettore de “La Stampa” era stato aiutato, anche economicamente, da Lionello Venturi (16). E proprio a casa di Salvatorelli, nel 1942, Venturi venne a trascorrere una licenza dal confino, mettendosi in contatto col gruppo clandestino del Partito d’Azione piemontese, di cui facevano parte, fra gli altri, Giorgio Agosti, Alessandro e Carlo Galante Garrone, Livio Bianco, Giorgio Vaccarino (17).
Dopo la caduta di Mussolini egli tornò a Torino, assumendo la direzione di tutta la stampa clandestina del Partito d’Azione. La prima iniziativa fu quella di dare l’avvio alla pubblicazione del supplemento regionale dell’ “Italia Libera”. Ne uscirono nove numeri, che crebbero poco a poco, diventando più grandi anche nel formato e che persero l’iniziale carattere di manifesti di propaganda. Il numero del novembre 1943 era dedicato ai primi grandi scioperi torinesi, quello di dicembre portava i primi dettagliati bollettini partigiani, ed era ricco di “fatti ed esempi”. I nove numeri furono stampati parte a Torino parte nelle zone partigiane e trasportati in città, malgrado i blocchi e le perquisizioni. Nei momenti migliori si raggiunsero le diecimila copie e come scrive Venturi nell’articolo sulla “Stampa clandestina torinese” pubblicato nell’Appendice: “lo sforzo principale compiuto dall’ “Italia Libera” fu quello di non esprimere soltanto una volontà di lotta, ma di invitare alla riflessione sulle responsabilità che uomini e classi si erano assunti durante la dittatura e la guerra” (18). In collaborazione col centro di Milano del Partito d’Azione venne creato nel febbraio del 1944, un organo di stampa diretto agli operai, “Voci d’Officina”, che seguì attentamente gli sviluppi della Resistenza nelle fabbriche torinesi e le esperienze compiute dagli operai di altri paesi, nell’Europa centrale, in Francia, in Spagna. Anche di “Voci d’Officina” furono pubblicati nove numeri. Venturi ha ricordato come il Partito d’Azione, partito nato nella lotta antifascista, avesse bisogno più degli altri di elaborare il proprio pensiero e di farlo conoscere. “L’Italia Libera” e “Voci d’Officina” furono accompagnati perciò da una serie di opuscoli, “I quaderni dell’Italia Libera”, “Che intendevano rispondere alle domande fondamentali e far sentire una propria voce sui problemi della guerra, dello stato, del socialismo, della libertà, di quel domani insomma che la resistenza stava creando giorno per giorno”.(19) Furono pubblicati venti opuscoli, parte a Torino, parte a Torre Pellice e nel Canavese. Venturi ne firmò quattro, riportati nella seconda parte del volume. Venturi curò anche la pubblicazione della serie dei “Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà”, intervenendo sui problemi della stampa clandestina e sull’organizzazione del movimento. Ma nessuna delle questioni poste da Venturi in questi testi trovò all’interno del Partito d’Azione una rispondenza effettiva: l’intenso dibattito politico sino a tutto il 1945 documenta piuttosto l’isolamento di Venturi e del gruppo torinese, non solo nei confronti degli altri partiti presenti nel Cln, su questioni essenziali: dalla partecipazione al governo Bonomia alla pregiudiziale antimonarchica, dalla discussione sulla forma-partito al rapporto tra l’iniziativa militare e identità politica per legittimare un sistema democratico dopo la conclusione del conflitto (20).
La militanza partigiana di Venturi non si limitò soltanto alla cura della stampa: per incarico della direzione politica e del comando di “Giustizia e Libertà” girò tutto il Piemonte a risolvere le situazioni militarmente e politicamente più delicate, come durante l’assedio repubblicano di Alba dell’ottobre 1944.
La fine della guerra segnò anche per Venturi l’inizio del disimpegno politico e della travagliata ricerca di una carriera professionale. L’abbandono della politica non fu però immediato. Prima di accettare la proposta di Manlio Brosio di recarsi a Mosca come addetto culturale dell’Ambasciata italiana (21), dal 24 agosto 1945 al 28 aprile 1946 diresse il quotidiano torinese “GL”. Firmò numerosi editoriali descrivendo con preoccupazione l’evolversi della situazione nazionale e internazionale, la fine della speranza di una vera rivoluzione democratica in Occidente. Di grande interesse sono tre articoli dal titolo Tre possibili rotture in cui individuò quali fossero le debolezze della situazione italiana su cui le forze reazionarie potevano fare perno per cercare di dividere le forze democratiche: il Sud, che non aveva mai avuto una rivoluzione democratica come quella del nord e dove occorreva rapidamente avviare una politica che cancellasse i privilegi e le forme di oppressione; le campagne, dove la lotta partigiana non era riuscita a coinvolgere le classi contadine e dove, come nel Sud, continuavano ad esistere ancora troppi privilegi da superare; e infine i ceti medi e la borghesia, che avevano ottenuto posti di privilegio all’ombra del fascismo e che cercavano ora di difenderli anche nella nuova situazione.
In Venturi vi è anche chiarissima la consapevolezza che la possibilità della rivoluzione democratica in Italia dipende dagli sviluppi della situazione internazionale dopo la guerra. E a questo proposito il 24 agosto 1946 firma un importante fondo dal titolo Non intervento, in cui denuncia come dalla nefasta teoria del “non intervento” si stesse passando all’altrettanto pericoloso principio delle “sfere d’influenza”. Le grandi potenze si erano sì convinte che fosse necessario intervenire con la loro forza, le loro idee e i loro eserciti, che non potevano più lasciare la politica mondiale nelle mani delle nazioni minori, ma cercavano però di fissare dei limiti a questo loro intervento, di stabilire delle zone in cui esso si potesse esplicare direttamente e apertamente. I timori di Venturi trovarono una conferma nella storia dell’Europa degli anni successivi e, durante la sua esperienza moscovita, potrà vivere da vicino la svolta internazionale della Guerra Fredda. Le elezioni del 1946, sul piano interno, avevano inoltre dimostrato le difficoltà di far esistere un partito come quello d’Azione nella realtà politica come quella italiana, divisa tra socialisti e comunisti da un lato e cattolici dall’altro.
A Venturi, come a tanti altri, che avevano deciso di non trasformare la politica in un mestiere, non restò, negli anni successivi, che la scelta del distacco, accompagnato però dalla sempre vigile volontà di continuare a perseguire, in piena autonomia, le proprie scelte civili e morali. Ne sono testimonianza i tre articoli sull’Unione Sovietica, pubblicati nella terza parte, e scritti tra il 1953 e il 1956: le speranze del dopo Stalin e del rapporto Chruscev si infrangono contro l’invasione dell’Ungheria. L’articolo pubblicato su “Il Mondo” il 6 novembre 1956, “Sangue per la libertà”, è l’ultimo intervento pubblico di carattere politico di Venturi e si conclude non a caso con l’appello alla “riscoperta della funzione autonoma degli intellettuali e militanti politici che non vogliono né la reazione e il clericalismo, né la restaurazione dello stalinismo”.
Dall’esperienza moscovita erano nati anche libri che hanno fatto di Venturi uno degli studiosi più noti nel mondo, non solo nel settore dell’Illuminismo, ma anche del pensiero politico e della società russi. Il Populismo russo, edito da Einaudi nel 1952, ha avuto altre quattro versioni in inglese, di cui la prima con un’introduzione di Isaiah Berlin, una in francese e una in spagnolo. Nel 1948 ha pubblicato, sempre per la casa editrice Einaudi, Jean Jaurés e gli altri storici della Rivoluzione, facendo conoscere in Italia la grande storiografia sociale legata a maestri come Albert Mathiez e soprattutto George Lefebvre. Venturi portò l’attenzione su Jean Jaurés e la sua proposta socialiste, che era stata il termine di confronto e di partenza per il rinnovamento della discussione storiografica sulla Rivoluzione e dedicò pagine straordinarie ad approfondire il tema della religiosità dei laici, che non potevano che essere scelta morale, civile e intellettuale. Tornato dalla Russia nel 1950, dopo aver vinto il concorso, insegnò Storia Medioevale e Moderna a Cagliari, dal 1951 al 1954. Nel 1954 pubblicò Alberto Radicati di Passerano, uno dei principali eroi gobettiani, un volume che ha aperto la stagione degli studi sull’Illuminismo radicale. Nel 1955 ebbe il passaggio all’Università di Genova, dove rimase sino al 1958, quando ottenne il trasferimento a Torino, alla cattedra di Storia Moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia, dove restò sino al 1984. Nel 1989 è stato nominato professore emerito dell’Ateneo torinese. La scelta di Torino – malgrado offerte non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti, per esempio Princeton – era dovuta al suo antico legame con la città, ma anche al progetto di dedicare gli anni successivi ad una ricostruzione dell’Illuminismo italiano, che superasse la prospettiva risorgimentale della storiografia precedente (il Settecento studiato soltanto in funzione dell’Ottocento e del Risorgimento visto a sua volta soltanto come espansione territoriale) e che permettesse di collegare gli spazi italiani al movimento illuminista e riformatore europeo. Le origini di questa ricerca possono essere rintracciate in due fondamentali relazioni: la prima fu quella sulla circolazione delle idee del 1954 al congresso dei risorgimentisti italiani; la seconda fu quella pronunciata a Stoccolma nel 1960, su invito di Federico Chabod, in occasione del nono congresso internazionale per le scienze storiche: L’Illuminismo nel Settecento europeo. Il risultato sono stati i quattro volumi del Settecento riformatore (Einaudi, Torino 1969-1990). Tra il 1958 e il 1965 Venturi aveva anche portato a termine un accuratissimo lavoro di scavo documentario ed insieme di ricostruzione biografica: si tratta della collana ricciardiana degli scritti degli Illuministi italiani, che uscirono in tre volumi consacrati ai lombardi, piemontesi e toscani, ai napoletani e ai riformatori delle altre terre italiane, in collaborazione con Gianfranco Torcellan e Giuseppe Giarrizzo. Nel 1969 fu invitato a tenere le Trevelyan Lectures di Cambridge, destinate a tradursi in uno dei suoi volumi più importanti: Utopia e riforma nell’Illuminismo, edito nel 1970 sempre da Einaudi. Nel 1973 pubblicò un confronto fra Italia e Europa, dalla fine del Settecento all’Unità, sotto il titolo Italia fuori d’Italia nel terzo volume della Storia d’Italia dell’editore Einaudi, saggio che gli valse il Premio Federico Chabod dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
Dopo la pubblicazione del secondo tomo del quinto volume del Settecento Riformatore, nel 1990, Venturi iniziò le ricerche per il terzo tomo, dedicato alla Toscana di Pietro Leopoldo e alla Repubblica di Genova, ma un incidente a una gamba e la tragica scomparsa della compagna della sua vita, Gigliola Spinelli, resero difficili gli ultimi anni della sua vita. Ma con ammirevole determinazione riuscì a continuare a lavorare e ultimò le ricerche negli archivi e nelle biblioteche di Firenze. Nel 1992, insieme ad Alessandro Galante Garrone, pubblicò un curioso libro sul falso profeta Mansur e sulla sua riforma dell’ Alcorano (Sellerio, 1992). Il nome di Mansur nascondeva in realtà un giovanissimo Filippo Buonarroti e Galante Garrone e Venturi dimostrarono come, dietro quelle false corrispondenze da Costantinopoli del 1786, si potessero rintracciare le radici sottili del futuro radicalismo rivoluzionario europeo, giacobino e comunistico.
Venturi, dal 1959, dopo la scomparsa di Federico Chabod, è stato direttore responsabile della “Rivista storica italiana”, incarico che ha mantenuto sino al giorno della morte, avvenuta il 14 dicembre 1994.
Due giorni prima gli era stato conferito il Sigillo Civico del Comune di Torino e Venturi, già molto provato, aveva voluto rivolgere ai presenti un breve saluto di ringraziamento che aveva concluso con queste frasi ”Non ho certamente l’idea che tutto quello che avrei potuto fare l’ho fatto, ma comunque ne ho tratto questo: giovani e meno giovani, pensate sempre che le radici locali e le grandi idee che spazzano il cielo dell’Europa non possono mai essere separate”.
Leonardo Casalino
Luglio 1996
Note
(1) Eric J. Hobsbawm, Il secolo
breve, Rizzoli, Milano, 1995
(2) Adolfo Venturi tra il 1901 e il
1940 sintetizzerà tutta la sua esperienza intellettuale nei quindici
volumi della Storia dell’Arte Italiana, una sorta di monumento al
metodo storico positivistico, che va dall’età paleocristiana sino alla
fine del Cinquecento.
(3) Su questo episodio, dei
professori che si rifiutarono di prestare giuramento, è uscito in
Germania, presso gli editori Haag-Herchen, nel 1944, uno studio di Helmut
Goetz, “Der freie Geist und seine Widersacher”, che
spero venga presto tradotto in Italia.
(4) Gianfranchi, Nuova Spagna,
in “Quaderno di Giustizia e Libertà”, n.9, novembre 1933, pp. 22-32
(5) E. Lussu, Lettere a Carlo
Rosselli e altri scritti di “Giustizia e Libertà”, a cura di M.
Brigaglia, Sassari 1979, pp. 84-85
(6) Andrea (Andrea Caffi), Appunti
su Mazzini, in “Giustizia e Libertà”, 29 marzo 1935. Caffi si
riferisce probabilmente al saggio di Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel
Risorgimento italiano, edito nel 1932.
(7) Luciano (Nicola Chiaromonte), Sul
Risorgimento, in “Giustizia e Libertà”, 19 aprile 1935.
(8) Santi Fedele, E verrà un’altra
Italia. Politica e cultura nei “Quaderni di Giustizia e Libertà”,
Franco Angeli, Milano 1992, pp. 18-20
(9) Curzio (Carlo Rosselli),
Discussione sul Risorgimento, in “Giustizia e Libertà”, 26 aprile
1935.
(10) Il riferimento è alla serie di Note
critiche alla storia del Risorgimento. I Mazzini e Cavour che A.
Omodeo pubblica ne “La Critica” nel corso del 1934 e del 1935.
(11) Cfr. G. Arfè, Carlo Rosselli
nella storia del socialismo italiano, in Giustizia e Libertà nella
lotta antifascista e nella storia d’Italia, La Nuova Italia,
Firenze 1976.
(12) Franco Venturi, Jeunesse de
Diderot (de 1713 à 1753), Paris 1939.
(13) Id., Dalmazzo Francesco Vasco
(1732-1794), Paris 1940.
(14) Il gruppo dirigente di “Giustizia
e Libertà” aveva impiantato a Marsiglia un’ “officina” di
documenti falsi per far espatriare i militanti antifascisti. Lionello
Venturi si era trasferito a New York, dove nel 1939 aveva fondato, insieme
a Salvemini e a Borghese, la Mazzini Society e dagli Stati Uniti giungeva
il denaro destinato agli esuli e necesssario per finanziare le operazioni
di espatrio (Cfr. M. Salvadori, Giellisti e loro amici degli
Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, in Giustizia e
Libertà nella lotta cit, pp. 282-287.
(15) Cfr. Le dichiarazioni rese in
quella data al commissariato di Pubblica sicurezza e trasmesse alla
Divisione Polizia Politica che raccomandò il confino di polizia o il
campo di concentramento. Le dichiarazioni sono conservate a Roma, Archivio
Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, b 5356, Venturi
Francesco.
(16) Ho trovato traccie di questo
rapporto nell’archivio privato di Salvatorelli.
(17) Cfr. Alessandro Galante Garrone,
Il calvinista del Partito d’Azione, in “La Stampa”, 15 dicembre
1944.
(18) Venturi, La stampa clandestina
torinese cit, p. 83
(19) Ibid., p. 84
(20) Cfr., La lettera di Venturi a
Manlio Rossi Doria, 24 maggio 1944, in “Annali della Fondazione Luigi
Einaudi”, V, 1971, pp. 508-10. Per le posizioni di Venturi all’interno
del Partito d’Azione cfr. Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione
1942-1947, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 200-1, 390-91.
(21) A Mosca si fermerà sino al 1950
quando tornerà in Italia per insegnare Storia Moderna e Medievale
all'Università di Cagliari. Cfr. il bel saggio di Antonello Mattone, Franco
Venturi e la Sardegna. Dall'insegnamento cagliaritano agli studi sul
settecento riformatore, in "Archivio sardo del movimento operaio
contadino e autonomistico", n. 48-50, 1950. Per la permanenza a Mosca
i riferimenti in Manlio Brosio, Diario di Mosca (1947-1951), a cura
di F. Bacchetti, Il Mulino, Bologna 1986. Di grande interesse sono
anche le Lettere da Mosca (1948-1948) a Giorgio Agosti, a
cura di Aldo Agosti e Giovanni De Luna, in "Passato e Presente",
n.35, maggio-agosto 1995, pp. 97-109.