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European Centre of Expertise for Victims of Terrorism

L’associazione, insieme a Rete Dafne Torino, è stata coinvolta nel progetto europeo “European Centre of Expertise for Victims of Terrorism (EUCVT- Centro di competenza dell’UE per le vittime del terrorismo)”. Il Centro, gestito da Victims Support Europe (VSE) in partnership con ARQ National Psychotrauma Centre, Association française des Victimes du Terrorisme e Fondation Lenval, è finalizzato ad per offrire competenza, orientamento e sostegno alle autorità nazionali e alle organizzazioni di assistenza alle vittime del terrorismo. In Italia, Luca Guglielminetti e Federico Mancini, hanno organizzato due giornate di formazione sui diritti della vittime del terrorismo per operatori italiani il 12 e 13 luglio 2021. Inoltre hanno collaborato all’edizione del manuale per l’Italia: “National Handbook on Victims of Terrorism: Italy”.

Si è quindi costituito un team di docenti provenienti dalla Magistratura, dall’Università, dalla Rete Dafne, da Psicologi per i Popoli Torino, dall’Associazione Leon Battista Alberti, dall’Associazione delle vittime della strage di Piazza Fontana e dall’ANCI, che ha erogato il seguente programma di formazione al quale hanno partecipato una cinquantina di operatori italiani del privato sociale.

Formazione-Sui-Diritti-Delle-Vittime-Del-Terrorismo


  • Qui la descrizione del Centro di competenza dell’UE per le vittime del terrorismo (sito esterno)
  • Qui il manuale per l’Italia, in inglese, National Handbook on Victims of Terrorism: Italy (sito esterno)

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Il ruolo politico e sociale delle vittime nella lotta al terrorismo

Il ruolo politico e sociale delle vittime nella lotta al terrorismo: i casi spagnolo e italiano è il titolo del symposium organizzato da Giorgio Gallino e Luca Guglielminetti nel quadro delle iniziative del GRIST (Gruppo Italiano Studio Terrorismo) e in collaborazione con l’Istituto G. Salvemini, la Fondazione V. Nocentini e l’Università di Torino, che si è svolto on-line il 18 Settembre.

Programma e contenuti

Symposium-sul-ruolo-politico-e-sociale-delle-vittime-nella-lotta-al-terrorismo


Video del symposium


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Italia e Armenia

Prefazione dell’Autore.

Mentre diamo alle stampe questo opuscolo – che in buona parte è la raccolta, con parecchie aggiunte, di alcuni nostri articoli comparsi sulla rivista ARMENIA – gli avvenimenti precipitano e alcuni problemi da noi svolti forse saranno presto sorpassati. Non importa: l’opuscolo non perde il suo valore di attualità, poiché lo scopo principale è quello di far conoscere al pubblico italiano l’Armenia attraverso le sue relazioni con Roma antica e con le gloriose Repubbliche italiane, il martirio leggendario, l’eroismo silenzioso, e di riaffermare infine, per la millesima volta, il diritto indiscutibile all’indipendenza.

E ancora: mentre il belgio, la Serbia, la Polonia devono ottenere, secondo le solenni e ribadite dichiarazioni dell’Intesa, la loro completa giustizia, la sorte dell’Armenia – la più oppressa e la più martoriata di tutte le nazioni oppresse – è tuttora sospesa.

La nuova diplomazia della rinnovata Europa non deve più ripetere gli errori e le colpe della vecchia diplomazia. Tutti gli armeni – i morti e i superstiti – aspettano nell’estrema angoscia che anche per la loro patria sia fatta giustizia, la quale si rissume nel seguente immodificabile trinomio: indipendenza, riparazioni, garanzie.

Torino, ottobre 1918

A. Sarian


Relazione dell’Armenia coi Romani.

I Romani d’Oriente: tale il titolo dell’articolo – comparso nell’Eroica – in cui la penna affascinante di Ettore Cozzani tratteggia magistralmente la parte gloriosa ed importantissima che ebbe la nazione armena nella storia mondiale, durante i lunghi secoli della sua esistenza nazionale, le sofferenze inaudite a cui essa fu soggetta, la tenacia sovrumana, la fede incrollabile con cui lottò per molti e molti secoli sulla via scabrosa del progresso e della civiltà, e il suo diritto indiscutibile a ricostituirsi in Stato indipendente. “L’Armenia non è stirpe di servi – aveva esclamato un altro scrittore valente e generoso, Enrico Molè – ha anch’essa nel suo sangue antichissimo il suggello aristocratico della grande famiglia ariana, di questa sacra falange originaria donde si partirono tutti i popoli destinati alla gloria, e di cui il nostro Vico doveva poi divinare coll’ala del genio che scavalca i millenni la fraternità lontanissima… Tutta la storia di questo infelice popolo dimostra la sua superiorità etnica sulle plebi idolatre o semitiche”. Infatti la nazione armena, d’origine antichissima, entrò in relazioni – d’amicizia o d’inimicizia secondo le circostanze – coi popoli più antichi della storia, Assiri, Babilonesi, Egizi, Fenici…; e mentre molti di questi popoli – di cui alcuni scrissero fulgide pagine di gloria e di potenza – scomparvero definitivamente negli abissi misteriosi della storia, non lasciando nessuna traccia della loro esistenza, la nazione armena facendo pur essa più d’una volta la sua parabola: sventolando la bandiera dell’indipendenza, formando uno degli imperi più vasti della storia, decadendo nella più spaventosa delle schiavitù, poi risollevandosi ancora, insomma, con un’alternativa di decadenze e rinascenze che forse mai un popolo conobbe, trascinò sino fino ai dì nostri la sua travagliatissima esistenza, conservando intatti il ricordo incancellabile del glorioso passato e la fede incrollabile in un radioso avvenire. Anche i Romani ebbero lunghi secoli di relazioni con la nazione armena, e i due popoli, secondo le circostanze, dovettero amarsi o odiarsi, allearsi o combattersi, ma furono amici sinceri, avversari leali, ed in complesso si può asserire che essi – affini di razza, di sentimenti e d’ideali – vissero in buon’armonia. Molti re, molti principi armeni presero la loro educazione a Roma e portarono poi in patria la fiaccola della civiltà romana; parecchi altri, prima di salire sul trono d’Armenia, si recarono a Roma, per ricevere la corona reale dalle mani dei Cesari, con solenni festeggiamenti ed in mezzo ad una folla entusiasta e delirante. Grandi imperatori e celebri generali romani si recarono in Oriente, ora per combattere a fianco del popolo armeno i barbari dell’Asia, ed ora per rivolgere le armi contro di esso, avendo occasione ad ogni modo di conoscerlo da vicino e di apprezzarlo.

Una delle primissime relazioni d’amicizia dell’Armenia coi Romani la troviamo al principio del II secolo a.C. , quando Artaserse e Zareh – due principi armeni designati governatori dell’Armenia da parte di Antioco il Grande, della dinastia dei Seleucidi – volendo ricostituire la libera Armenia, ridotta a provincia macedone durante le marcie trionfali di Alessandro Magno, attraverso le ricche ed immense regioni dell’Asia Occidentale, si ribellarono contro i successori del grande Macedone, sventolando lo stendardo dell’indipendenza. E, per riuscire più facilmente nell’ardua e sacra impresa, i due valorosi principi pensarono di allearsi coi romani, inviando a tal uopo una missione a Roma. Il Senato romano, ben lieto di avere un alleato da opporre in Oriente contro i Seleucidi – nemici acerrimi dei Romani – fece calorosa accoglienze agli inviati armeni, riconobbe l’indipendenza armena, e promise ogni appoggio al rinascente Stato armeno. Sotto il valoroso re Artaserse – giacché Zareh regnò sopra una piccola regione – ed i suoi successori, l’Armenia conservò la sua indipendenza con varie vicende politico-militari, e non troviamo avvenimenti d’importanza nelle relazioni fra Roma e Armenia, quand’ecco, al principio del I secolo av. C., sorgere sull’orizzonte sull’orizzonte asiatico due figure eminenti – Tigrane, re d’Armenia, e Mitridate re del Ponto – che vogliono contendere la supremazia a Roma ed abbatterne ovunque la potenza e il prestigio. Mitridate aveva giurato – come Annibale – eterno odio contro i Romani, e per debellare la loro potenza, muove contro con numerose truppe armeno-pontiane e con una formidabile flotta: conquista in breve tutta l’Asia Minore, invade la Grecia e si prepara a marciare contro Roma. Il Senato romano, dinanzi alle gesta del nuovo Annibale, è in preda al massimo terrore, e per affrontare il temerario monarca, invia in tutta fretta Silla, il quale in seguito alle memorande vittorie di Cheronea ed Orcomene, obbliga Mitridate di accettare le gravissime condizioni di pace dettate da Roma. Intanto Tigrane, secondo le norme del trattato di alleanza stipulato con Mitridate, rivolge le sue armi contro l’Asia occidentale, e con un esercito numeroso e ben agguerrito, invade l’Assiria, la fenicia, la Palestina, la Cappadocia, la Cilicia…facendo sventolare in poco tempo le aquile armene su quelle vaste e ricche regioni, imprimendo terrore a tutti i popoli vicini e formando uno degli imperi più vasti che la storia registri. Raggiunto così l’apogeo di gloria e di potenza, Tigrane si accinge a fondare la nuova capitale del suo impero sulle sponde del Tigri, chiamandola dal suo nome Tigranocerta, ed abbellendola con pregevoli opere d’arte trasportate dalle città delle colonie greche dell’Asia Minore; inorgoglito quindi di tanta grandezza, si fa servire dai sovrani detronizzati – pare una ventina – nelle sue marce trionfali, fulminee e proclamandosi infine “Re dei Re”. Mitridate, che non aveva dimenticato il grave colpo inflittogli da Silla, e aspettava un’occasione favorevole per scagliarsi contro i Romani, invase di nuovo (73 av. C.) con un esercito formidabile i domini romani dell’Asia Minore. Ma neppure questa volta la fortuna arrise all’orgoglioso monarca; egli fu sconfitto da Lucullo e non trovò altro scampo se non rifugiandosi presso Tigrane il grande, suo genero. Lucullo inviò una missione a Tigrane per reclamare che gli si consegnasse Mitridate, minacciando altrimenti di marciare contro l’Armenia. Il Re dei Re rispose con sdegno, che in nessun caso egli avrebbe consegnato il suo ospite ai Romani, essendo ciò contro il diritto delle genti, contro le leggi internazionali, e se Lucullo volesse mettere in pratica le sue minacce egli saprebbe difendersi. Le grandi imprese di Tigrane – che da anni spadroneggiava in oriente e teneva un contegno arrogante, minaccioso contro i Romani, invadendone i domini asiatici ed approfittando di ogni occasione per colpirne il prestigio, avevano scosso il Senato romano, il quale tuttavia non aveva voluto finora rischiarsi in una guerra – di cui l’esito poteva essere catastrofico per la repubblica – contro il grande Armeno, e anche stavolta sarebbe venuti piuttosto ad un compromesso; sennonché Lucullo, fidandosi nella sua buona stella e contrariamente agli ordini del senato, marciò contro Tigrane, e assediò la città di Tigranocerta – la futura capitale – di cui la costruzione non era neppure terminata. Tigrane corse subito in aiuto della città assediata; abituato però a facili vittorie, e considerando quasi con disprezzo il nuovo avversario, non mise tutto il suo talento, tutta la sua attenzione nella nuova impresa, mentre Lucullo, ben conoscendo la forte tempra del nuovo nemico e le difficoltà dell’impresa, prese prudentemente tutte le misure per battere il monarca più temibile d’Oriente. Il cozzo fu tremendo, le perdite da ambo le parti furono gravissime, ma in ultimo Tigrane pagò il fio della sua negligenza, della sua temerarietà: egli fu sconfitto – la prima sconfitta della sua vita dopo numerose e brillanti vittorie – si ritirò in una posizione ben fortificata, per riorganizzare le sue truppe e vendicarsi dello scacco subito. il generale romano, tutto inorgoglito della vittoria insperata, valicate le catene del Tauro armeno, entrò nel cuore dell’Armenia e si accinse a marciare sulla capitale, Artasta. Ma i due re sconfitti – Tigrane e Mitridate – avevano giurato di battere a qualunque costo Lucullo. E difatti, in una memorabile battaglia sulle sponde del fiume Arazanì, essi decimarono le truppe di Lucullo, obbligando l’ambizioso generale a precipitosa fuga, e marciando di vittoria in vittoria, e incalzando e battendo ovunque le legioni romane, invasero ancora una volta la Cappadocia e minacciarono gli altri possedimenti romani dell’Asia. Lucullo non si diede per vinto: pensò alla rivincita, ma invano; le sue truppe prese dal panico, non vollero più seguirlo, mentre il Senato romano, terrorizzato ancora una volta dalle vittorie fulminee di Tigrane e non avendo più fiducia in Lucullo, lo richiamò a Roma, ed affidò la scabrosa questione di Oriente a Pompeo. La sorte arrise poco tempo a Tigrane: anche per il cesare armeno la parabola della fortuna era in discesa. Mentre il vecchio monarca era intento a raccogliere tutte le sue forze per misurarsi con Pompeo, suo figlio Tigrane il cadetto, impaziente di succedere al trono del padre, lo tradì, si rifugiò presso Pompeo, e promise di sostenere quest’ultimo con tutte le sue forze nella lotta contro suo padre. Lo stesso fece Fraate, re dei Parti, per vendicarsi delle sconfitte inflittegli tempi innanzi da Tigrane nelle sue marce travolgenti in Oriente. Intanto Pompeo, dopo aver sconfitto definitivamente Mitridate – tradito pure vilmente da suo figlio Farnace ebbe salva la vita fuggendo verso il Caucaso – ridusse a provincia romana il glorioso regno del Ponto e mosse con ingenti forze contro l’Armenia. Che poteva fare da solo l’ottantenne Tigrane contro tanti nemici forti ed implacabili? La sua mente chiaroveggente intuì subito che l’unico risultato della sua resistenza sarebbe la soggezione completa dell’Armenia ai Romani: per salvare ancora l’indipendenza armena non c’erano mezzi diplomatici. Egli domandò un colloquio con Pompeo per mettere le basi di un compromesso, senza spargimento di sangue; si recò personalmente al campo del valoroso generale che gli fece cordiali accoglienze, e i due Grandi si accordarono sulle condizioni di pace (66 av. C.), che furono gravissime per l’Armenia. Tutte le terre conquistate da Tigrane, e cioè la Fenicia, l’Assiria, la Mesopotamia, la Cilicia… furono restituite ai Romani, rimanendo al vecchio monarca solo il territorio patrio, il regno armeno propriamente detto: l’Armenia doveva pagare come indennità di guerra 3000 talenti (circa 33 milioni di fr.), ed infine, secondo un’ultima clausola, i re armeni, prima dell’assunzione al trono, dovevano avere il consenso di Roma. Dopo di ciò, Pompeo proclamò Tigrane amico ed alleato dei Romani. Tutto era perduto, ma fu salva l’indipendenza armena. In quanto a Mitridate, è nota la sua tragica fine: si ferì col proprio pugnale, e pregò quindi un soldato gallo di spegnerlo interamente, per non cadere prigioniero in mano al nemico. Tigrane il Grande morì ottantacinquenne, dopo quaranta anni di glorioso ed avventuroso regno.

La figura simbolica di Tigrane il grande raccoglie in sé tutto il genio, tutta l’energia della sua razza. Quest’uomo eccezionale racchiude nella sua grande anima la smisurata ambizione conquistatrice di Alessandro Magno, e lo spirito riformatore, riorganizzatore di Napoleone. Da monarca assoluto dei vecchi tempi, detronizzò sovrani, li adoperò quali umilissimi servitori a palazzo e nei viaggi attraverso i suoi immensi dominii – estendentesi dal Caucaso al Mar Rosso, dal Mediterraneo al golfo persico – e si proclamò orgogliosamente “Re dei Re”. Ammiratore e cultore appassionato della civiltà greco-romana, fece costruire ed abbellire grandiose città e fu valido sostenitore di tutte le energie capaci a far progredire il commercio e l’industria, il teatro e la letteratura, l’architettura e la scultura. Amato e adorato dal suo popolo, ammirato e temuto dai suoi nemici, intuì fin dal principio i bisogni e le aspirazioni del suo paese, e mettendo sopra ogni cosa il bene della patria, abbatté con mano ferrea e spietatamente i poteri decentralizzati, autonomi, che causavano la debolezza della Nazione, minacciando guai maggiori, e accentrò nelle sue possenti mani tutti i poteri dello Stato. Diede forte impulso alla potenza militare ed alle forze spirituali del Paese, non solo mettendo su basi solide, granitiche il territorio nazionale, ma bensì fondando con rapidità fulminea, vertiginosa uno degli imperi più vasti che la storia ricordi, e innalzando l’Armenia all’apogeo di gloria e di potenza. Un illustre romano dell’epoca – Cicerone – proclamò solennemente Tigrane “Potentissima rex Asiae”.

Artavasde – il re poeta, successore di Tigrane, amico sincero ed alleato dei romani – non ebbe fortuna. Egli fu vittima dell’ambizione e dell’inettitudine di Crasso prima e di Antonio poi, i quali vilmente incolparono Artavasde delle loro sconfitte in Asia, perché egli – dissero – non li aveva aiutati sufficientemente. E quando in seguito all’uccisione di Crasso sui campi di Mesopotamia gli succedette Antonio, ed egli pure subì gravi sconfitte, si finse amico del re armeno, dopo ripetute lusinghe lo trasse in trappola, e stretto in catene d’oro lo condusse prigioniero in Egitto. Dopo la clamorosa sconfitta di Antonio ad Azio, Ottaviano volle liberare lo sfortunato re armeno. Ahimè, troppo tardi! La famigerata Cleopatra in tutta fretta l’aveva fatto decapitare. Artavasde lasciò scritti pregevoli in prosa ed in versi. Antonio aveva designato suo figlio Alessandro quale successore al trono dell’Armenia; ma tale successione fu solo nominale, in quantochè Artaserse – figlio di Artavasde – che si trovava alla corte dei Parti, rivendicò a sé il trono di suo padre, sbaragliò gli avversari, e salito sul trono dell’Armenia, fece massacrare – per vendicarsi della morte di suo padre – tutti i romani residenti o di passaggio in Armenia. Ciò suscitò le ire di Augusto che si recò personalmente in oriente, ma non volendo venire ad una guerra con gli Armeni, i quali certo avrebbero avuto l’aiuto dei Parti – nemici inconciliabili dei romani – ricorse a mezzi diplomatici, creando in Armenia un partito romanofilo che patrocinava l’assunzione al trono di un altro figlio di Artavasde, Tigrane IV, educato alla Corte Imperiale e che si trovava tuttora a Roma. Perché bisogna notare in proposito, che le esperienze fatte sinora da Roma per soggiogare l’agguerrito popolo armeno, avevano dato risultati assai disastrosi; l’essenziale era quello di averlo amico ed alleato contro gli altri popoli d’Oriente in generale, e contro i Parti in particolare. Augusto riuscì nell’intento, e Tigrane fu assunto al trono senza colpo ferire, giacché nel frattempo Artaserse fu ucciso dai suoi avversari. Ma Tigrane IV ebbe breve vita e salì sul trono Tigrane V – nemico dei Romani – il quale pure fu ucciso presto in una guerra coi popoli vicini sobillati dai Romani, prima che Caio – inviato da Augusto – arrivasse in Armenia. Dopo la morte di Tigrane V, una ridda di sovrani – per lo più stranieri – salirono sul trono dell’Armenia, alcuni col consenso di Roma, altri contro; ma nessuno ebbe fortuna: furono perseguitati, detronizzati, assassinati…soprattutto per il motivo che non erano di nazionalità armena, e quindi il paese era in completa anarchia, finché Tiberio, per stabilirvi l’ordine e la tranquillità, mandò Germanico. Questi, con le sue buone qualità, segnatamente per il suo carattere mite, dolce, seppe accaparrarsi difatti le anime e mise sul trono Zenone, figlio di re Polemo del Ponto, sotto il nome di Artaserse III, che fu accolto con entusiasmo dal popolo armeno. Purtroppo la calma non fu durevole, poiché dopo la morte di Artaserse III, l’ambizioso Artabano, re dei Parti, mise sul trono armeno suo figlio Arsace contro il consenso di Roma e, con lo scopo di ristabilire il vasto impero di Dario e di Serse, si preparò ad invadere la Cappadocia e gli altri domini asiatici di Roma. Ancora una volta l’Armenia diventa il campo di sanguinose battaglie tra i Parti ed i Romani; ancora una volta la corona molte volte insanguinata dall’Armenia viene contesa tra mille mani. Altre detronizzazioni, altri assassini di sovrani…e lo stato caotico perdura per anni ed anni. Infine, un uomo d’ingegno e di valore, Vologeso – re dei Parti – approfittando dell’occasione favorevole e sfidando le ire di Roma, innalza sul trono armeno suo fratello Tiridate. Era il segnale di un’altra serie di guerre fra Parti e Romani sul suolo armeno. E infatti, Nerone, che era appena salito sul trono dei Cesari, ordinò immediatamente al valoroso Corbulone di rialzare il prestigio di Roma in Oriente. L’insigne generale, con un forte nerbo di legioni romane e di truppe degli alleati d’Asia, invase l’Armenia e mise a ferro e fuoco tutto il paese. Tiridate era rimasto con poche truppe armene, perché suo fratello Vologeso era occupato altrove a domare una ribellione; tuttavia si decise a difendere ad ogni costo il suo trono e protestò energicamente contro il barbaro metodo di Corbulone di condurre la guerra. Il generale romano rispose che il suo scopo non era l’occupazione dell’Armenia: voleva solo che il nuovo re ricevesse la corona armena dalle mani di Neurone. Tiridate si rifiutò, combatté valorosamente, ma sopraffatto infine dalla schiacciante superiorità del nemico, dovette cedere. Corbulone, dietro l’ordine di Nerone, mise sul trono Tigrane VI – discendente di Erode il grande – il quale fin da principio riuscì odioso al popolo armeno che vedeva in lui il cieco strumento della politica neroniana. Intanto Vologeso aveva giurato di vendicarsi a qualunque costo dell’insulto fatto a suo fratello Tiridate. Questi con truppe armene assediò Tigranocerta dove si trovava Tigrane con legioni romane, mentre Vologeso affrontò Corbulone in Mesopotamia e vittoriosamente, in modo che il generale romano fu obbligato a domandare aiuto a Roma. Nerone inviò nel 61 Peto, perché mettesse fine una volta per tutte alla scabrosa questione armena. Ed invero dapprincipio la fortuna arrise al nuovo generale romano, ma presto le truppe parto-armene ebbero il sopravvento ed inflissero gravissime perdite all’esercito di Peto, il quale, obbligato a precipitosa fuga, si rifugiò con le sue legioni in Cappadocia, e venne a patti vergognosi. Le truppe romane dovevano ritirasi completamente dall’Armenia; Roma doveva disinteressarsi delle cose armene e sul trono dell’Armenia sarebbe risalito Tiridate: Vologeso avrebbe semplicemente avvisato Nerone del fatto compiuto. Raramente le aquile romane avevano subito umiliazioni più gravi. Durante il loro ritiro i soldati dovettero sopportare – per tema di peggio – tutti gli insulti della popolazione, che tolse loro inoltre giustamente tutto quanto avevano derubato al loro paese. Quando la notizia del clamoroso scacco toccato alle legioni romane in Armenia arrivò alla capitale, Nerone fu profondamente turbato, e decise a qualunque costo di prendersi la rivincita. Nominò Corbulone comandante in capo delle forze romane di terra e di mare, e gli affidò ancora una volta la conquista dell’Armenia. Ma Corbulone non si decise mai a dare battaglia campale alle truppe parto-armene: era troppo vivo in lui il triste ricordo degli scacchi subiti da Crasso, da Antonio, da Peto…D’altronde anche a Roma, l’ostinarsi in un’impresa, quale la conquista dell’Armenia, pareva troppo rischioso, troppo temerario; si trattava invece di salvare l’apparenza, di ristabilire, almeno apparentemente, il prestigio tanto scosso di Roma in Oriente. E si venne ad un modus vivendi, e la pace fu conclusa: si riconosceva la completa indipendenza dell’Armenia sotto un principe della dinastia degli Arsacidi, quale era Tiridate; solo tale principe doveva ricevere la corona reale dalle mani dei Cesari. Tiridate si mise quindi in solenne viaggio verso Roma, accompagnato dalla regina, da molti alti funzionari romani, da migliaia di truppe scelte armene e da numerosi servitori. Il suo transito attraverso i domini romani – che durò nove mesi – fu un vero trionfo: tutta la popolazione andava incontro al re d’Armenia per acclamarlo e per ammirare lo splendore della sua Corte… A Roma poi l’accoglienza fu delle più calorose. Una folle norme ed entusiasta assistette alla festa di incoronazione; il Senato presenziava al completo, e quando Nerone mise sul capo di Tiridate la corona d’Armenia, la gioia e l’entusiasmo del popolo raggiunsero il parossismo. Quindi furono organizzati banchetti, feste in onore del nuovo re e Nerone cantò e fece vibrare la sua cetra. Tiridate ricevette poi cospicui regali: tutte le spese del viaggio – che raggiunsero decine e decine di milioni di lire – furono pagate dal tesoro imperiale. Infine, Tiridate, dopo aver guadagnato l’affetto e l’ammirazione di Nerone e del popolo di Roma, fece ritorno in Armenia, che dopo tanti anni di battaglie sanguinose poté godere per un certo tempo la pace e la tranquillità. Purtroppo la pace non fu duratura, causa la rivalità tradizionale tra i Parti ed i Romani che contesero per secoli il sopravvento della loro influenza in Armenia; e finché Roma si accontentò di un’autorità puramente nominale, apparente, le cose andarono assai lisce, ma tutte le volte che ebbe la velleità di ridurre l’Armenia a provincia romana, la reazione fu vivissima, accanita, tanto da parte degli Armeni quanto dei Parti. Così vediamo Traiano, al principio del II secolo, invadere ancora una volta l’Armenia; ma tosto le sue legioni sono sconfitte, decimate, e nel suo letto di morte, avvenuta in Cilicia, vede con profondo dolore il crollo definitivo del suo sogno ambizioso. Adriano, suo successore, ritira spontaneamente le truppe romane da tutte le regioni armene. Anche Caracalla segue una politica di conquista, invade l’Armenia e volge quindi le sue armi contro i Parti, ma la fortuna non gli arride, perché tosto viene assassinato per le sue crudeltà, per opera di Macrino. Questi, succedutegli sul trono dei Cesari, continua la di lui politica aggressiva, finché sconfitto dalle truppe parto-armene segue di poi una politica conciliativa, sicché più tardi, quando Alessandro Severo (222-35) si reca in Oriente per difendere l’onore delle aquile romane contro i Persiani – come pure nelle guerre condotte dal medesimo imperatore contro i Germani – gli armeni combattono vittoriosamente a fianco delle legioni romane. Nel 242 sul trono di Persia salì Sapore I, e tenne una politica minacciosa contro l’Armenia e contro Roma. L’imperatore Filippo venne con esso vilmente a patti vergognosi, e lasciò alla sua sorte il suo alleato re Cosroe d’Armenia. Questi non si diede per vinto, continuò la lotta da solo resistendo vittoriosamente, finché Sapore lo fece assassinare a tradimento e mise l’Armenia sotto il protettorato persiano con un governatore armeno, mentre il piccolo Tiridate, figlio ed erede di Cosroe, liberato da morte sicura, veniva consegnato alla Corte di Roma. Fortunatamente, poco dopo, le redini dell’impero passarono nelle mani energiche di Diocleziano, e le aquile romane ebbero ancora una volta il sopravvento in Oriente su quelle persiane. Tiridate fu coronato a Roma re d’Armenia dalle mani di Diocleziano; partì verso l’amata Patria, ove il popolo gli fece accoglienze calorose, e stretto intorno al suo valoroso re, cacciò da tutto il paese la dinastia straniera dei Sassanidi.(…) Quand’ecco affacciarsi al principio del XI secolo la valanga travolgente dei turchi selgiucidi, condotti dal loro terribile capo Togrul Beg. Al tremendo cozzo crollarono successivamente, dopo una resistenza accanita, i due fiorenti regni degli Arzuni dapprima, dei Bagratidi di poi. Tutta l’Armenia fu messa a ferro e fuoco. Nessun dolore, nessuno strazio fu risparmiato all’infelice paese: quelle orde barbariche vi commisero tutte le violenze, tutte le atrocità, che la loro maledetta razza ripeté in seguito in ogni angolo di terra che ebbe la suprema sventura di subire il loro giogo. Molti armeni non vollero sottostare al pesante giogo dei turchi ed emigrarono a Bisanzio, in Russia, in Polonia, in Italia, in Ungheria…; altri, valicate le catene del tauro, si stabilirono in Cilicia e, sotto la guida del principe Rupen – della dinastia dei Bagratidi – cacciandone i Bizantini, vi fondarono un principato che, più tardi, sotto Leone il Magnifico, si trasformò in regno: il regno dell’Armenia minore. Questo valoroso monarca ripeté le gesta dei suoi predecessori – dei Tigrani, degli Artasersi, dei Tiridati – e volando di vittoria in vittoria, e debellando tutti i suoi, ingrandì notevolmente i confini del suo regno.

Il regno dell’Armeno-Cilicia costituisce una delle pagine più fulgide della storia armena. E’ in questo periodo che i Crociati trovandosi ai confini dell’Armenia smarriti fra genti nemiche e barbare, gli armeni – i soli fra tutti i popoli d’Oriente – accolsero con entusiasmo i soldati d’Occidente, li soccorsero con vettovaglie ed armi, e abbracciando la loro santa causa, pugnarono eroicamente contro i mussulmani, eterni nemici della civiltà occidentale. Pure in questo periodo la nazione armena strinse intime relazioni coi popoli d’Occidente ed in ispecie con le gloriose Repubbliche italiane: Venezia, Genova, Pisa… le quali relazioni formeranno per l’appunto l’argomento del capitolo seguente.


La questione armena.

Il destino volle che un popolo originario della più aristocratica delle razze umane – la razza ariana – dotato di alte qualità intellettuali, spirituali, capace di gareggiare coi popoli nobili, più eletti d’Occidente sulla via del progresso e della civiltà si trovasse solo, isolato, lontano dai suoi fratelli d’Europa , in quelle zone montuose dell’Asia occidentale che si estendono fra il Caucaso, il Mar Nero ed il Mediterraneo sulla strada maestra delle classiche invasioni storiche, circondato da genti barbare e refrattarie ad ogni civiltà. Ecco l’origine delle continue ed immense sofferenze che afflissero l’infelice Armenia.. Ecco la vera causa, la sintesi delle cause del lungo e atroce martirio del popolo armeno.

Abbiamo accennato nei capitoli precedenti come gli armeni dopo aver sventolato la bandiera della libertà, dell’indipendenza contro gli imperi vicini e potenti che volevano soggiogarli, siano riusciti a fondare il loro vasto impero sotto Tigrane il grande raggiungendo l’apogeo di gloria e di potenza, prima che Augusto venisse proclamato imperatore dei Romani e mentre l’Europa spasimava in uno stato caotico. Come gli armeni abbiano accettato il Verbo novello, la nuova civiltà cristiana, convertendosi in massa – sovrano e popolo – alla religione di Cristo prima che Costantino il grande proclamasse su Ponte Milvio il cristianesimo religione di Stato. E come in fine attaccata dai due colossi vicini – la prepotente Persia e l’insidiosa e perfida Bisanzio – l’Armenia venisse spartita fra questi due imperi.

Cinque lunghi secoli di servitù e di sofferenze inaudite non bastarono a spegnere il genio e lo spirito ribelle della razza, finchè nel secolo IX gli armeni riuscirono a risollevare, rialzare lo stendardo dell’indipendenza, fondando i due gloriosi regni degli Arzruni e dei Bagratidi.

Ahimè! dopo aver scritto splendide pagine nel gran libro della storia, i due regni crollarono successivamente, non senza una resistenza accanita al terribile cozzo dei turchi Selgiuchidi. Da allora trascorsero più di cinque secoli, e l’Armenia geme tuttora sotto il pesantissimo tallone del turco. Da cinque lunghi secoli l’Armenia lotta disperatamente, stretta nelle catene d’una tirannide senza pari, per difendere la sua civiltà e per conservare i vincoli spirituali, ideali che l’avvincono all’Occidente, sperando sempre sull’aiuto dell’Europa cristiana, soprattutto del vicino e potente Impero dei Moscoviti. Ed invero la Russia, fino dai tempi di Pietro il Grande e di Caterina II, rivolse la sua attenzione e dimostrò la sua simpatia verso il popolo armeno, facendo rinascere in esso le più rosee speranze nella prossima liberazione e nella ricostituzione dell’antico regno d’Armenia. Ma le promesse russe non furono mai realizzate, per quanto gli armeni abbiano aiutato la Russia nelle sue guerre contro la Turchia, con massimo slancio e con la massima abnegazione, contribuendo non poco al successo finale. Sopra tutto nella guerra russo-turca del 1877-78, in cui una parte dell’Armenia turca fu invasa ed occupata dalla Russia, la nazione armena dimostrò il suo sincero attaccamento all’impero deli Zar. Fra l’altro essa diede parecchi capi che condussero l’esercito russo alla vittoria: i generali Loris-Melicoff, gugassof, Lazaref erano armeni e degni discendenti di Tigrane il Grande e di Leone il Magnifico.

Il trattato di Santo Stefano mise fine a tale guerra e la Russia ricompensò l’Armenia con l’art. 16 di quel trattato: “La Sublime Porta – dice l’articolo – s’obbliga a realizzare senza alcun ritardo, i miglioramenti e le riforme che esigono i bisogni locali nelle province abitate dagli armeni e a garantirvi la loro sicurezza contro i Curdi e i Circassi”. Ciò non piacque all’Inghilterra, che vedeva in quella mossa un aumento di prestigio della Russia ed un pretesto per immischiarsi nelle faccende interne dell’ impero ottomano. Volle paralizzare l’azione della Russia, ed intervenne stipulando con la Turchia la convenzione di Cipro, per cui “d’accordo col governo britannico, la Sublime Porta doveva introdurre nei suoi possedimenti d’Asia Minore tutte le istituzioni proprie a rialzare lo stato di quelle popolazioni cristiane e musulmane; e affinché l’Inghilterra potesse aiutare più efficacemente in ciò il Sultano, essa era autorizzata ad occupare ed amministrare l’isola di Cipro”. Ma la fosca commedia degli interventi non finiva più. I difensori dell’Armenia aumentavano a vista d’occhio.

I difensori dell’Armenia aumentavano a vista d’occhio. In realtà nessuno pensava sinceramente a migliorare le condizioni degli armeni.. Ogni Potenza meditava invece un trucco per paralizzare l’azione delle altre e la questione armena offriva ottima occasione per aumentare – con le lusinghe o con le minacce – il proprio prestigio, la propria influenza presso la Sublime Porta e preparare un lauto boccone alla morte dell’eterno agonizzante: l’Impero turco. In quanto all’ Armenia, per la cinica diplomazia della cosiddetta Europa civile, essa aveva un solo diritto, un solo dovere: quello di immolarsi sull’altare dell’interesse delle singole Potenze. L’atroce martirio d’un intero popolo era ben poca cosa in paragone a qualche concessione ferroviaria, postale doganale, ecc. ecc. Ah! le famigerate concessioni…. L’Armenia le pagò con torrenti di lacrime, con sofferenze inenarrabili, con fiumi di sangue!

Ecco intervenire infatti alla loro volta le altre grandi Potenze europee per abolire gli effetti del trattato di S.Stefano e della convenzione di Cipro stipulando il trattato di Berlino (1878), in cui l’articolo 61 dedicato all’Armenia è così concepito: “La Sublime Porta si obbliga a realizzare, senza alcun ritardo, i miglioramenti e le riforme che esigono i bisogni locali nelle province abitate dagli armeni e a garantire la loro sicurezza contro i Circassi e i Curdi. essa darà periodicamente conoscenza delle misure prese a tal fine alle Potenze, che, ne sorveglieranno l’applicazione”. Le famose riforme non vennero mai. Anzi, dopo ogni richiesta di riforma le condizioni degli armeni peggiorarono sempre di più, le atrocità turche si fecero sempre più feroci, culminando nei tremendi massacri del 95-96 in cui 300.000 armeni perdettero la vita! Solo a Costantinopoli, sotto gli occhi degli Ambasciatori delle grandi potenze, ne furono massacrati 10.000.

Che fecero i firmatari delle riforme del trattato di Berlino? Intervenne l’Inghilterra con la minaccia di ricorrere alle armi se non cessavano i massacri. Ma intervennero pure la Russia e la Germania: la prima, facendo consegnare dal suo ambasciatore al Sultano all’indomani delle stragi, ricchissimi doni, una lettera autografa (di congratulazioni) dello Zar Nicola e concentrando numerose truppe nel Caucaso, in difesa dell’impero dei massacri da qualsiasi attacco; la seconda, facendo rimettere al Sultano una fotografia di Guglielmo II, il quale più tardi, calpestando il cumulo di centinaia di migliaia di cadaveri armeni, offrì al mondo il macabro spettacolo di recarsi personalmente a Costantinopoli, per stringere le mani ancora grondanti di sangue armeno al Sultano Abdul-Hamid, il “Sultano Rosso”, il “Grande Assassino” come lo bollò scultoriamente Gladstone.

Intanto cominciavano a sorgere Comitati rivoluzionari, ed è un’accusa ingiusta e stolta come fanno gli ignoranti di cose armene e gli osservatori superficiali di avvenimenti storico-politici – che gli armeni non si siano mai ribellati ed abbiano sopportato supinamente la tirannide turca. Gli armeni non sono un branco di pecore. Tutta la storia di questo popolo – e sono quaranta secoli – non è che una catena ininterrotta di lotte e sacrifici. L’Armenia simboleggia per eccellenza più di d’ogni altra nazione la ferrea, l’eterna legge che avvince e domina tanto l’esistenza degli individui, quanto quella delle collettività: la lotta.

Le sommosse, le ribellioni furono frequenti, violenti. Basti ricordare, fra cento altre, le epiche gesta di Sassun, di Sunik, di Hagin, ma soprattutto di Zeitun – il piccolo montenegro armeno di 12.000 abitanti appena, assiso sulle vette del Tauro di Cilicia – che si sollevò più di trenta volte, opponendo viva resistenza alle truppe soverchianti, inferocite del sultano e conservando sempre una certa autonomia. Ma all’Armenia era materialmente impossibile liberarsi con le proprie forze dai due imperi più tirannci del mondo – russia e Turchia. D’altronde quale delle nazioni risorte in stato indipendente nell’ultimo secolo – Grecia, Serbia, Romania, Italia – non ebbe aiuto straniero?

Fra le organizzazioni rivoluzionarie si distinsero sopra tutti i Comitati “Drosciagah” e “Henciagh”. Ad essi spetta la gloria di aver sollevato il popolo cento e cento volte contro la più perfida, la più feroce delle tirannidi – la turca – e di aver organizzato nel Caucaso l’accanita resistenza, contro gli attacchi dei Tartari e contro la più potente, la più gigantesca organizzazione poliziesca: la polizia russa. Ad essi l’onore e la gloria della famosa scalata alla Banca Ottomana di Costantinopoli, con la minaccia di farla saltare in aria, se non si dava immediata soddisfazione alle giuste richieste della nazione armena. Ad essi ancora la gloria di aver attentato cin una macchina infernale contro la vita del sultano – contro la vita del successore del Profeta, il califfo di tutti i mussulmani. L’atto era così temerario e di tale difficoltà tecnica, che il Sultano ne fu sbalordito e, per quella volta, non ebbe neppure il coraggio di ordinare i soliti massacri. Anche la rivoluzione giovane turca del 1908, che diede un regime costituzionale alla Turchia e detronizzò quel mostro sanguinario di Abdul-Hamid, che terrorizzava l’impero da qualche decennio, ebbe il fervido e l’efficace aiuto dei rivoluzionari armeni. Lo confessarono gli stessi giovani turchi, i quali in un momento di spontaneità e di ebbrezza, versarono torrenti di lacrime sulle tombe dei martiri armeni, proclamarono altamente che i veri fondatori della Costituzione erano i rivoluzionari armeni, i loro maestri – come li chiamavano essi – poiché tutto era stato organizzato e condotto a termine con l’iniziativa e col valido aiuto di questi. Ahimè! Quella banda di sanguinari e di insensati dimenticò troppo presto le sue promesse e i suoi debiti di riconoscenza verso la nazione armena, Nel 1909, dopo appena otto mesi di fosca ed ignobile commedia costituzionale, i giovani turchi, fedeli discepoli dei vecchi, organizzarono nella provincia di Adana la strage di 30.000 armeni. Se non avvennero massacri anche in altre province armene, ciò fu indipendente dalla “buona volontà” dei giovani turchi…

E ritorniamo ancora alla Russia. Come si disse dianzi, in linea generale, nel Caucaso le condizioni degli armeni erano alquanto migliori, l’atmosfera politica era più respirabile. Essi poterono quindi svolgere, almeno in parte, le doti che loro sono innate e fecero grandi progressi: l’istruzione pubblica, l’industria e le arti presero enorme sviluppo. Purtroppo la politica russa non fu mai stabile a loro riguardo, bensì fluttuante, variabile, mutandosi dalla massima simpatia e benevolenza alle peggiori vessazioni, alle più feroci persecuzioni. Fu soprattutto verso il 1880 che s’inaugurò tale regime di ferocia e di persecuzione, quando nell’antiquata e degenere mente della burocrazia russa nacque la folla idea di russificare gli armeni. Si cominciò a scoprire un “pericolo armeno” da cui l’Impero era gravemente minacciato.

Le due anime dannate di quella odiosa politica furono: Donducoff-Corsacoff, governatore generale del Caucaso, ma sopra tutto il suo successore principe Galitzin. Questo folle sanguinario, tormentato dall’idea fissa che gli armeni – per il grado di civiltà e di benessere economico, per la vicinanza alle frontiere dell’impero per il loro attaccamento al movimento progressista e rivoluzionario – costituivano l’elemento più turbolento e più dannoso alla salute dell’ Impero, d’accordo con il Governo centrale, ideò il suo diabolico programma: sterminare gli armeni, o almeno assestare loro un colpo così terribile – economicamente e moralmente – da non poter più rialzarsi per molti e molti anni. Furono chiuse le scuole e le biblioteche, sciolte le società di coltura e di edizioni, soppressi i giornali, confiscati i beni della Chiesa armena, aizzati i fanatici Tartari del Caucaso contro la popolazione armena. Ancora una volta il sangue armeno corse a fiotti, furono incendiati numerosi villaggi, profanate le chiese e le scuole. Così anche nell’Armenia russa fu seminato dappertutto la morte e la rovina. Ma la reazione – organizzata sopra tutto dai comitati rivoluzionari Drosciagh e Henciagh – scattò violenta, furibonda da parte degli armeni. Si costruissero delle barricate e si ebbero delle vere battaglie fra i Tartari ed Armeni. La famosa polizia russa, i famosi cosacchi, invece di cercare di stabilire l’ordine e la pace fra i combattenti, rimanevano impassibili, o peggio ancora, davano man forte ai tartari. eppure gli armeni, pugnando con disperata energia, ebbero infine il sopravvento. Il Governo russo fu obbligato a cambiar tattica, i beni della Chiesa armena furono restituiti, le libertà di una volta riconcesse, e se è vero che in seguito, con giudizi sommari, molti intellettuali armeni furono esiliati in Siberia, è pur vero che nel 1913-14 la Russia prese l’iniziativa di una conferenza fra le Grandi Potenze, per introdurre finalmente in Armenia le famosissime riforme.

Le Grandi Potenze redassero un piano di riforme e la Turchia – dopo aver opposto, come al solito, varie obiezioni a tale progetto – finì per accettarlo. Ahimè! Lo scoppio della guerra mondiale fece ripiombare tutto nel nulla. Ciò che soffrì in questi ultimi quattro anni la nazione armena oltrepassa i limiti dell’immaginazione umana. La grandiosità tragica del martirio armeno supera ogni visione apocalittica. Le atrocità commesse da parte degli imperi centrali nel Belgio, nella Serbia, nella Polonia, possono dare una pallida idea delle atrocità a cui fu soggetta questa infelice nazione da parte delle orde turche, organizzate dalla “Kultur” e condotte da ufficiali tedeschi. Non faccio retorica; non vi è nessuna esagerazione, i testimoni oculari – numerosi, non sospetti e fra i quali c’è persino qualche tedesco onesto – confermano tale dolorosa ed inoppugnabile verità.

Il Comm. Giacomo Gorrini, nobilissima figura di diplomatico, che copriva l’alta carica di console generale a Trebisonda e fu testimone oculare delle atrocità turche in quella città, al suo ritorno in Italia in un’intervista concessa al giornale “Messaggero” fece in proposito dichiarazioni impressionantissime, che fanno venire i brividi e strappano le lacrime anche al più cinico egoista. Ecco qualche brano dell’intervista: “.. Nel mio distretto – disse il Comm. Gorrini – a partire dal 24 giugno (1915) gli armeni furono tutti internati, cioè scacciati a forza dalle rispettive residenze ed accompagnati dai gendarmi per destinazioni lontane, ma ignote, che per i quattro quinti era… la morte con inaudite crudeltà. Il proclama solenne dell’internamento venne da Costantinopoli: è opera del Governo centrale e del Comitato Unione e Progresso.

“Fu una vera strage e carneficina di innocenti, una cosa inaudita, una pagina nera con la violazione flagrante dei più sacrosanti diritti di umanità, di cristianità e di nazionalità.

“ Di 14.000 circa armeni fra gregoriani, cattolici e protestanti che abitavano Trebisonda, e che mai provocarono disordini né dettero mai luogo a provvedimenti collettivi di polizia, quand’io partii non ne rimanevano più neppure cento !

“ Dal 24 giugno, giorno della pubblicazione dell’infame decreto, fino al 23 luglio, giorno della mia partenza da Trebisonda, io non avevo dormito, io non avevo mangiato più, ero in preda ai nervi, alla nausea, tant’era lo strazio di dover assistere ad una esecuzione in massa di creature inermi, innocenti.

“ Il passaggio delle squadre degli armeni sotto le finestre e davanti la porta del Consolato, le loro invocazioni al soccorso senza che né io né altri potessero fare nulla per loro, la città essendo in stato d’assedio, guardata in ogni punto da 15.000 soldati in pieno assetto di guerra, da migliaia di agenti di polizia, dalle bande dei volontari e dagli addetti al Comitato “Unione e Progresso”, i pianti, le lacrime, le desolazioni, le imprecazioni, i numerosi suicidi, le morti subitanee per lo spavento, gli impazzimenti improvvisi, gli incendi, le fucilate in città, la caccia spietata nelle case e nelle campagne, i cadaveri a centinaia trovati ogni giorno sulle strada dell’internamento, le giovani donne ridotte a forza mussulmane o internate come tutti gli altri, i bambini strappati alle loro famiglie o alle scuole cristiane e affidate per forza alle famiglie mussulmane, ovvero posti a centinaia sulle barche con la sola camicia, poi capovolti e affogati nel Mar Nero o nel fiume Dermen Derè, sono gli ultimi incaccettabili ricordi di Trebisonda, ricordi che ancora a un mese di distanza, mi straziano l’anima, mi fanno fremere. Quando si è dovuto assistere per un intero mese a siffatti orrori, a torture così prolungate, nell’assoluta impotenza di agire come avrei voluto, viene spontanea, naturale la domanda se tutti i cannibali e se tutte le belve feroci abbiano lasciato i loro recessi e nascondigli o le foreste vergini dell’Africa, Asia ed Oceania per darsi convegno a Istambul!

“ Permetta anzi che io chieda a questo punto il mio colloquio e che dichiari che questa pagina nera della Turchia merita la più assoluta riprovazione e la vendetta della intera cristianità. Se sapessero tutte le cose che so io, tutto quello che ho dovuto vedere coi miei occhi e uidire colle mie orecchie, tutte le Potenze cristiane ancora neutrali dovrebbero sollevarsi contro la Turchia, gridare anatema al suo incivile governo ed al suo feroce Comitato “Unione e Progresso” e ritenere responsabili anche gli alleati, che tollerano o coprono col loro aiuto delitti esecrandi che non hanno eguale nella storia antica né moderna.

“ Onta, orrore, obbrobrio!”

Ora, se pensiamo che le atrocità descritte dal Commendatore Gorrini con accento commosso e con vivaci e con vivaci colori si riferiscono ad una sola città; se pensiamo che tali atrocità furono ripetute col furore sanguinario, con la medesima ferocia in cento città ed in mille villaggi dell’Armenia e dell’Anatolia, la nostra mente può cercare allora – ma cercare solo, senza riuscire di certo – farsi un concetto dell’immensità della tragedia armena.

Non voglio dilungarmi di più su questo penosissimo, straziante argomento. Ma chi, dotato di nervi saldi, robusti voglia sapere i particolari raccapriccianti del martirio armeno, non ha che da leggere – tra i tanti opuscoli e libri scritti in varie lingue – “The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire: 1915-1916” che è la storia documentata delle atrocità commesse contro gli Armeni, in tutto l’impero ottomano, e presentata da lord Bryce al Ministro degli Affari esteri inglese d’allora: Visconte Grey of Fallodon.

La storia si ripete. L’errore colossale, la colpa imperdonabile che aveva commesso Bisanzio non seguendo la saggia politica di Roma – un’ Armenia indipendente, baluardo inespugnabile agli attacchi dei barbari d’Asia – e più tardi l’Europa delle Crociate – abbandonando alla sua sorte il regno dell’Armenia Minore – ripetè con maggior colpa, con maggior cinismo, a distanza di secoli e ad onta di luminosi, eloquenti insegnamenti del passato, l’Europa del secolo XX.. le Grandi Potenze – o per ragioni di morbosa sentimentalità o per ragioni di interessi mal compresi – trattarono sempre con ina certa tenerezza quell’organismo mostruoso che è lo Stato turco, quella massa amorfa, malvagia e incosciente che ha nome popolo turco. Nè le atrocità dei vecchi turchi, nè la crudeltà dei giovani – più veroci e sanguinari dei primi – non bastarono a scuotere la sensibilità pachidermica delle Grandi Potenze. Mentre quel popolo meraviglioso che ha una storia quattro volte millenaria; quel popolo che fondò l’immenso impero di Tigrane il Grande ed il glorioso regno di Leone il magnifico quando le nazioni d’Europa spasimavano ancora nelle tenebre; quel popolo che produsse e produce tutt’ora illustri campioni nella letteratura, nella filosofia, nell’architettura, nelle scienze.., insomma in ogni campo dell’umana attività in cui sogliono eccellere le razze elette; ol popolo che ebbe dalla storia l’atroce eppur gloriosa missione di difendere la civiltà greco-romana nelle lontane terre d’Oriente offrendo per secoli e secoli il petto dei suoi figli ai tremendi colpi di tutti i barbari d’Asia…ebbene si lasciò che quel meraviglioso popolo venisse trucidato, massacrato, dibattendosi in continua e terribile agonia in mano al peggiore dei carnefici. (…)

Quale sarà l’assetto che l’Intesa deve dare alla martire Armenia quando essa si presenterà al Congresso della Pace lacera, straziata, insanguinata, ma fiera e a fronte alta? (…)

Possa quel giorno – sognato dal popolo armeno con tanta fede e con indicibile ansia – non essere lontano! Giorno grande, solenne, in cui la novella Europa, potrà finalmente salutare la risorta Armenia con le nobili parole che Anatole France pronunziò alla Sorbona, il 9 Aprile 1916, durante l’imponente manifestazione pro Armenia: “Sorella, alzati, non soffrire più! Tu sei libera d’ora innanzi di vivere secondo il tuo genio e la tua fede”.


L’apoteosi di Mazzini.

L’indipendenza armena e la missione d’Italia.

Il grande sogno di Giuseppe Mazzini sta per avverarsi. L’ideale sacro a cui egli consacro’ tutta la sua vita, il grande principio – principio di nazionalità – per cui egli dalla sua prima gioventù fino alla morte, per quaranta anni di seguito, non si stanco’ mai di combattere con la fede e la tenacia dell’Apostolo, sta per trionfare. Nessuno come lui ebbe una visione così chiara della lotta gigantesca, ma fatale, che andava addensandosi sull’ Europa. Egli, con l’ala del genio che non conosce limite nello spazio e nel tempo, profetizzò persino nei minimi particolari la grande guerra di liberazione dei popoli ed il raggruppamento di tutte le democrazie del mondo, contro la coalizione degli imperi autocratici.

Quale meravigliosa divinazione dell’intervento della grande democrazia insulare nella mischia, quando fino dal 1859 egli ammoniva severamente l’Inghilterra: “ E voi, nazione libera e forte, voi che vi dichiarate credenti nella verità e nella giustizia, direste: fra il male ed il bene rimarremo neutrali, spettatori impassibili? E’ la parola di Caino.” La Patria di Gladstone non poteva scegliere la parte di Caino.

E chi, in verità, più del Presidente Wilson – il più autorevole ed il intrasigente dei mazziniani – seppe dare al grande conflitto il suo vero significato con eloquenti e chiare parole, con atti energici e tenaci, indirizzandolo sulla via maestra che conduce alla soppressione di tutti i tiranni, alla liberazione di tutti gli oppressi ? E che dire dell’intervento italiano ? Chi non ricorda i lunghi mesi di neutralità, di vigilia angosciosa, in cui tendenze opposte pro e contro l’intervento si cozzavano violentemente, e i seguaci del gretto egoismo e del falso internazionalismo, unitamente agli agenti degli imperi sopraffattori adoperavano i mezzi più insidiosi e più perfidi per inchiodare l’Italia nella più obbrobiosa inerzia e per sbarrarle la via tracciata dai massimi artefici del Risorgimento? Invano! Le ruote della Storia debbono seguire il loro corso fatale, irresistibile, rovesciando ogni forza, ogni ostacolo. Lo spirito di Mazzini, aleggiando sulla penisola guidò la nazione verso i suoi alti destini. Egli aveva lanciato i suoi roventi strali contro i fautori della neutralità, allorquando una guerra di libertà e di nazionalità si combattesse nel mondo. Egli aveva segnato il posto di gloria e d’onore dell’Italia nel prossimo conflitto europeo, quando scriveva con frase romanamente scultoria e con solennità profetica: “L’Italia e l’Europa camminano lentamente, ma sicuramente, come la giustizia di Dio, alla crisi suprema, alla grande battaglia fra libertà e despotismo.”

Ormai è prossimo il giorno in cui la rinnovata umanità comincerà la sua nuova e luminosa storia. Spunta già l’alba radiosa in cui i popoli oppressi, dopo aver scosso il giogo schiacciante del secolare servaggio, si libereranno sulla via maestra del progresso e della civiltà. Gli ultimi dei, gli ultimi tiranni tramontano, per seppellirsi in eterno negli abissi più profondi della Storia. La nazione di anima profondamente pagana, che volle sollevare dalle loro secolari tombe glia ntichi dei, e trascinare l’umanità dinanzi agli altari da tempo abbattuti di Wotan, di Thor e delle Walkirie; la nazione possente e orgogliosa, che per effetto di follia collettiva volle deviare con inaudita violenza il corso della Storia e sommergere i popoli nei tempi del più tirannico e sanguinoso assolutismo, vede avvicinarsi – dopo essersi attirati l’odio e la maledizione del mondo intero – l’ora dell’espiazione delle sue gravi colpe, dei suoi orribili delitti.

I due Stati più anacronistici del secolo XX – lAustria e la Turchia, l’impero della forca e l’impero dei massacri – che si erano agggiogati al carro della Germania, sperando di salvare i loro putridi organismi dalla dissoluziione, crollano sotto i colpi mortali delle nazionalità oppresse e sotto le cannonate liberatrici dei legionari delle democrazie. Terribile ironia della Storia! La guerra mondiale, che secondo i loro infernali calcoli doveva salvarli dallo sfacelo, li conduce inesorabilmente e simultaneamente – come aveva augurato e profetizzato Mazzini – al crollo definitivo. Sulle loro rovine s’innalzano nuovi Stati, collocati sulla base granitica del principio di nazionalità. I popoli oppressi sotto il tallone tedesco ed austro-ungarico ebbero il meritato riguardo da parte delle nazioni e governi alleati. L’intesa ha già sanzionato con solenni dichiarazioni la costituzione in Stati indipendenti delle nazionalità oppresse dall’Austria-Ungheria. Non così per le nazioni oppresse sotto il giogo turco. I difensori della libertà e della giustizia fecero solo dichiarazioni vaghe per l’avvenire di quei popoli. E sopra tutto una nazione – la nazione armena – che per le sue tradizioni, per il suo tenace attaccamento alla civiltà occidentale e per il contributo che recò fin dalla prima ora alla causa degli Alleati, avrebbe dovuto meritare maggior riguardo, maggiore attenzione da parte di essi, fu abbandonata quasi nel dimenticatoio. In Italia, non mancano da parte del pubblico dimostrazioni di simpatia e solidarietà per la causa armena: conferenze per illustrare il martirio e l’eroismo di questo popolo, comitati per affermare il diritto di essi all’indipendenza. ma l’Italia ufficiale dimostrò quasi nessun interessamento al problema armeno, fingendo talora di ignorare persino che esisteva da decenni sul tappeto della diplomazia europea una questione armena, oppure pronunciandosi – caso raro – in termini vaghi e troppo diplomatici. Nel passato, non erano mancate in Italia anime nobili e generose che avevano rivolto la loro mente sulla dolorante questione armena. Oltre a Giuseppe Mazzini, che col suo grande cuore e con la sua vastissima esperienza, aveva abbracciato la causa santa di liberazione di tutti i popoli oppressi, profetizzando il contemporaneo crollo degli imperi austro-ungarico e ottomano, un latro Grande italiano – Francesco Crispi – aveva manifestato il suo autorevole parere sul problema armeno, in una lettera di eccezionale importanza, scritta da Napoli il 3 febbraio 1897 e indirizzata a Saverio Fera, Gran Maestro della Massoneria italiana di rito scozzese, presidente del Comitato pro Armenia costituito allora a Firenze, in difesa dei diritti della nazione armena: “Ebbi la vostra del 17 gennaio e se non mi affrettai a rispondere dovete comprendere il motivo. Per undici mesi continui, dopo aver lasciato il potere, mi ritirai dalla vita politica attiva ed oggi scrivo a voi personalmente con preghiera di non dare pubblicità alla mia lettera. La causa del vostro Comitato patrocinata è sacra, ma i Governi che dovrebbero interessarsene sono insensibili ed i popoli impotenti. Infatti dovete ammettere che la voce di Gladstone, nella libera Inghilterra, rimase inascoltata e non trovò eco nel continente. L’Armenia è in peggiori condizioni della Polonia. L’Europa è così crudele verso quella nazione che non riconosce per la medesima il territorio politico suo. Nel trattato di Berlino del 1878, si dispose dei porti e delle città che dovrebbero appartenere all’Armenia, e le Potenze affidarono allora al beneplacito della Turchia le riforme che avrebbero dovuto fare. “La sublime Porta, è detto nell’artcolo 61 di quel trattato, si impegna a realizzare senza ritardo i miglioramenti che esigono i bisogni locali delle provincie abitate dagli armeni” Abitate dagli armeni: capite? Sono passati 18 anni, e gli assunti impegni della Turchia, si esplicarono nelle carneficine e negli incendi onde furono desolate le provincie abitate dagli armeni. Al 1895 partirono per l’Oriente le squadre delle grandi Potenze: la sola Inghilterra aveva 18 navi e tutti credettero che giustizia sarebbe stata fatta a quel popolo oppresso. Sapreste dirmi i risultati di questa spedizione militare? Le corazzate tornarono nei loro porti. Dopo di ciò che sperate di fare a pro degli armeni? Ci vogliono tempo e denaro, per una impresa di tanta entità, e voi coi vostri Comitati non potete raccogliere che aspirazioni e speranze, che non valgono a correggere o a guarire il Governo turco. L’Italia ha molti guai in casa sua per non poter estendere la sua azione a benficio di altri popoli. La Francia repubblicana continua le tradizioni dei suoi Re, e oggi, passando sul cadavere della plonia, va a Mosca a stringersi in fraterno amplesso con lo Czar. L’inghilterra è la Potenza che forse avrebbe il desiderio di redimere l’Armenia, ma da sola non vorrà impegnarsi in una guerra. La Russia non può sciogliere la questione armena, perchè ha mezzo popolo armeno sotto il suo impero: avrebbe interesse di prender l’altra metà, ma l’Europa non lo consentirebbe. Del resto lo Czar, dopo aver assonnato il sultano e fattosi suo protettore, prefefrisce attendere il momento opportuno per attuare i suoi disegni in Oriente. Quando verrà l’ora estrema dell’eterno ammalato, forse la diplomazia avrà un pensiero per l’Armenia. Ho detto abbastanza. Non avevo intenzione di scrivere come ho fatto. Carlo Alberto, quando cospirava, aveva inciso sulla carta su cui scriveva: Aspetto la mia stella! Povero Re! Invocò il suo astro quando l’Italia, seminata di nubi, non era pronta a rendere la luce e finì in esilio. Oggi anarchici e preti impediscono il risorgere della nazionalità, predicando le lusinghiere teorie dell’umanità nella quale si confondono i popoli di ogni sangue, di ogni razza, di ogni religione. Queste teorie, lo sapete, sono la negazione della patria. Sanguina il cuore. Gli orrori della Bulgaria non furono così crudeli come questi dell’Armenia; quelli trovarono uno Czar vendicatore ed un Congresso europeo che proclamò l’indipendenza di quel popolo. Aspettiamo, pensiamo ai casi nostri affinchè meglio costituiti e veramente liberi, possiamo essere abbastanza forti per dare la libertà agli altri. Verrà questo giorno? Non è lecito dubitarne.”

Queste poche righe riassumono meravigliosamente la sventurata e complicata questione armena. E’ il grido di dolore di un’anima nobile, ma desolata a non poter intervenire, in difesa di una giusta e santa causa. L’atto d’accusa, la fiera requisitoria d’un uomo di Stato, con piena conoscenza di causa, contro la tremenda responsabilità dell’Europa dinanzi al martirio armeno. Infine è l’augurio, la promessa che l’Italia in un prossimo avvenire, cresciuto di forza e di prestigio, metta la sua potente spada nella bilancia per la risoluzione del problema armeno. Non è giunto forse il giorno così ardentemente auspicato da Crispi? L’Italia, schierandosi a fianco dell’Intesa non solo a rivendicare le proprie aspirazioni nazionali, bensì in difesa della civiltà e della libertà, dimostrò al mondo che i discendenti di Mazzini non volevano disertare la Storia, mentre si combatteva la grande lotta di liberazione vaticinata dal Grande Ligure. I soldati e i marinai d’Italia, in tre anni d’eroismo, d’abnegazione e di vittorie, diedero la prova più luminosa che la grande e forte Italia sognata da Crispi, era ormai un fatto compiuto. Infine, decretando dal Campidoglio col Patto di Roma il diritto all’indipendenza dei popoli oppressi dall’Impero degli Asburgo, l’Italia riaffermò la sua incrollabile, immutabile fedeltà agli ideali mazziniani. L’Armenia che fu abbandonata nel suo spaventoso servaggio mentre tutti i popoli balcanici venivano sottratti, per opera dell’Europa, al giogo turco; l’Armenia, che fu obliata anche in questi tremendi anni di guerra, mentre s’inneggiava al Belgio, alla Serbia, alla Polonia – nazioni nobili ed eroiche, a cui però la nazione armena è per nulla inferiore – deve ottenere alla Conferenza della pace la sua completa indipendenza nei suoi confini storici. Non solo, anche per l’Armenia si debbono esigere riparazioni e garanzie. E chi più dell’Italia, già soggiogata alla secolare oppressione straniera, può apprezzare meglio il martirio armeno? E chi più dell’Italia, erede diretta e rappresentante più autorevole della civiltà romana, assertrice dei grandi ideali di Mazzini e di Garibaldi, ha il dovere e la missione di patrocinare la causa di questo lontano lembo asiatico della civiltà latina, proclamando solennemente il diritto dell’Armenia all’indipendenza? Non è mazziniano – e cioè italiano – il principio che ogni nazione ha un sacro diritto: il diritto all’indipendenza; che ogni nazione ha un dovere egualmente sacro: il dover ad aiutare gli oppressi ad acquistare l’indipendenza? D’altronde, per un caso fortunato, l’interesse ideale e morale dell’Italia è in perfetta armonia col suo interesse economico e politico, perché l’Armenia si ricostituisca in Stato libero ed indipendente. Infatti, la Germania, battuta ed avvilita, non cambierà d’anima. Nè l’immane dramma degli ultimi anni, nè la più clamorosa sconfitta basteranno a trasformare la barbara natura di quella nazione: l’orgoglio, la violenza e la tenacia sono le sue caratteristiche essenziali. L’impero romano non ebbe mai nemici così accaniti, così tenaci, come i Germani. E il conflitto attuale, non è forse, in ultima analisi, la lotta di una pretesa civiltà superiore – la famigerata Kultur – contro l’insuperabile civiltà romana? I Teitoni furono fra i più refrattari al Cristianesimo – Verbo novello che predicava l’amore e la fratellanza universale. La Chiesa cattolica dovette lottare secoli e secoli per convertirli al cattolicesimo, essi però alla prima occasione se ne staccarono accettando la Riforma luterana. In tale conversione, non si deve vedere tanto – parlo solo della Germania – una convinzione intima, una ribellione di coscienza, ma piuttosto l’effetto di una passione: odio e orgoglio. Dopo Roma imperiale, era Roma cattolica che suscitava l’odio e l’invidia dei Teutoni. Ora, un popolo che ha secolari tradizioni di tenacia e di orgoglio; un popolo che si nutrì da un secolo in qua delle teorie di orgoglio e di violenza di Fichte, di Hegel, di Treitchke e di cento altri, e nelle quali dottrine si devono ricercare i germi del conflitto mondiale, non può trasformarsi da un giorno all’altro. Le commedie parlamentari e le mascherate di democraticizzazione non bastano a cambiare la natura d’un popolo. Ecco perché è necessario mozzare i tentacoli al mostro germanico e inchiodarlo nella sua tana, perché non possa mai più rialzare la testa, mai più risvegliare né i propri istinti barbari, nè quelli dei suoi affini – turchi, magiari, tartari: Ecco perché è necessario creare possenti barriere dappertutto – barriere economiche, politiche e culturali. L’Armenia indipendente, elemento di progresso per eccellenza, costituirà appunto una di tali barriere. E’ con un’Armenia indipendente, elemento di progresso per eccellenza, costituirà appunto una di tali barriere. E’ con un’Armenia indipendente – non soggetta allo straniero, turco o non turco – che l’Italia potrà riallacciare le relazioni commerciali e politiche che furono così cordiali, così strette nel passato fra il Regno d’Armenia Minore e le gloriose Repubbliche Italiane. Ed è un’Armenia libera e indipendente che – custode gelosa e tenace della civiltà romana in mezzo a secolari ed accaniti assalti dei barbari vicini – potrà svolgere a sua volta, liberamente, la sua missione civilizzatrice in quelle contrade asiatiche.

Nella generale liberazione degli oppressi, nell’universale resurrezione dei martiri, l’Armenia – martire fra i martiri – non deve più essere dimenticata. L’Intesa continua a riconoscere il diritto all’esistenza di uno Stato – lo Stato Turco – il quale, nato e cresciuto nel sangue, si sostenne sempre – oggi, come ieri e, state sicuri, anche domani – con l’assassinio e col massacro eretto a sistema di governo. Le democrazie unite in nome del principio nazionale, si ostinarono a difendere il diritto all’indipendenza di un popolo, il popolo turco, il quale, ribelle – per incapacità organica – a qualsiasi civiltà, non possiede quasi nessuno dei requisiti e fattori, materiali e morali, perché una collettività – secondo la scuola italiana: da Romagnosi a Gioberti, da Mazzini a Mancini – possa considerarsi vera nazione e quindi avere diritto all’indipendenza; mentre le stesse democrazie non pronunciarono tuttora nessuna parola chiara, precisa sull’avvenire dell’Armenia la quale, viceversa, possiede tutti i fattori e contrassegni mazziniani per avere diritto all’indipendenza. Delenda Turchia! Bisogna distruggere la Turchia! Bisogna amputare senza pietà quest’organo cancrenoso dell’umanità! L’Intesa si assumerebbe una tremenda responsabilità conservando ancora lo Stato turco – infinitamente più anacronistico e più sanguinario dell’Impero degli Asburgo – ridotto pure ai minimi termini, poiché domani, certamente, la ferocia sanguinaria delle orde turche si riverserebbero sui milioni di cristiani, che vivono alla rinfusa in mezzo alle popolazioni musulmane in tutto l’impero turco. Guai ai popoli non musulmani ultimi rimasti sotto uno Stato turco! Pagheranno per tutti. E’ storia troppo recente l’atroce destino che colpì successivamente i Greci, i Serbi, i Bulgari, gli Armeni… Bisogna liberare l’Armenia: bisogna distruggere la Turchia! Ecco la suprema necessità: ecco il duplice imprescindibile dovere dell’Intesa. Sia Roma, sorgente e maestra del diritto, a riaffermare il più elementare diritto negato per secoli all’armene genti: il diritto alla vita. Sia la Terza Italia, risorta ad unità politica in nome dei sacrosanti diritti di nazionalità, a proclamare per prima, solennemente, il diritto dell’ Armenia all’indipendenza. Sia la grande e forte Italia vaticinata da Crispi – divenuta ormai palpitante realtà storica – a propugnare e a volere fortemente che anche agli armeni sia fatta giustizia completa finalmente, e che lo Stato turco – l’onta suprema che pesa tuttora sul mondo civile – sia cancellato per sempre dal novero degli Stati. E allora – abbattuti gli ultimi idoli, gli ultimi tiranni: liberati gli ultimi oppressi e risorti gli ultimi martiri – le libere nazioni si avvieranno all’adempimento della loro sacra missione; la rinnovata Umanità s’innalzerà verso i suoi alti destini. E la grande idea di Mazzini diverrà la grande realtà.

Torino, ottobre 1918