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Franco Venturi

Presentiamo una piccola antologia ragionata degli scritti politici dello storico torinese Franco Venturi. Gran parte del materiale qui proposto è tratto dal recente libro postumo “La lotta per la libertà” (1996) che raccoglie, curati da Leonardo Casalino, una vasta parte degli scritti politici di Venturi risalenti agli ultimi anni del fascismo fino al primo dopoguerra. La scelta di concentrare l’attenzione sugli scritti politici, che sono anche scritti giovanili, nasce dal grande interesse che da essi scaturisce sia dal punto di vista dell’attualità dei temi, sia dall’approccio teorico e metodologico che illumina in maniera significativa i successivi studi storici.
La presente antologia non ha e non può avere grandi velleità, al momento ha il solo scopo di presentare e diffondere su internet la figura di un grande storico, il cui pensiero riteniamo debba essere attentamente valutato alla luce di quanto oggi sta prevalendo in termini di indirizzi politici e culturali, dentro e fuori le università.
Infine, questo piccolo spazio è anche un riconoscimento personale del sottoscritto, che di Venturi è stato assiduo frequentatore dei suoi ultimi quattro corsi all’Università di Torino. Corsi accademici la cui frequentazione era “privilegio” di pochissimi studenti, in anni, del resto, nei quali si stavano imponendo le mode negli studi storici. Del resto Franco Venturi, come osserva Casalino nella sua biografia, la battaglia politica l’aveva persa nel 1954 come molti socialisti “vittime” sia del fascismo che dello stalinismo, possiamo aggiungere noi. A lui non restava che compiere la scelta di dedicarsi allo studio per partorire un monumentale lavoro di ricerche sulle origini del pensiero e dell’azione riformista nel Secolo dei Lumi e porlo a disposizione delle generazioni future. Il tutto con una volontà che allora mi pareva pari solo allo scettico pessimismo che spesso esprimeva. Solo oggi, anche alla luce di questi scritti politici, ci si può rendere conto che l’attualità del suo lavoro è ben lungi dall’essere posta nella giusta considerazione e valorizzazione.

Luca Guglielminetti


Gli Italiani

Basterebbe che ogni italiano, in una di quelle domande rivolte alla propria coscienza che neppure il fascismo può impedirgli di porsi, si chiedesse di che razza è, da dove viene il colore dei suoi occhi o della sua pelle, perché l’ “antica purezza del sangue” proclamata dal Ministro della Cultura Popolare prenda un aspetto assurdo. Abitante di grandi porti che sono comunità viventi di tutte le genti, contadino di quelle campagne del sud, da cui tanti sono partiti emigranti per il mondo per tornare africanizzati, americanizzati, europeizzati, abitanti di quelle isole che sono state fecondate dalle più diverse civiltà, e percorse dai pirati di tutte le coste, lavoratore di quel nord d’Italia che da tanti secoli è uno di quei centri in cui l’Europa si è riconosciuta nella sua multiforme varietà, tutti gli italiani portano in se stessi le tracce delle “razze” dei quattro punti cardinali.

(1938, in “Giustizia e Libertà”)

F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pag.123


Il Risorgimento

(…)Aggiungo subito, a scanso di interpretazioni malevole, che per noi non si tratta evidentemente di presentarci come gli eredi del Risorgimento, né tanto meno di spolverare vecchie bandiere (Dio e Popolo, per esempio), nè di considerare il Risorgimento come un tutto che si deve accettare per intero, ma di vedere ciò che negli ideali e negli uomini del Risorgimento può essere ancora animatore per noi. Le formule sono morte, gli involucri sono spezzati, i problemi cambiati, ma lo spirito che li spingeva dovrebbe spingere anche noi.

Così, per esempio, mi pare assolutamente necessario sentire il valore morale che ebbe una formula quale quella dell’Unità, come oggi quella della Libertà. E’ una forza contro gli scettici di tutte le specie, un punto fisso, una guida. Quando si dice “Libertà” di fronte a quelle macchine enormi che sono gli stati fascisti, ci si deve sentire sorretti, aiutati da quella forza che diceva “Unità” di fronte ai mille tentativi di escamotage, di falsificazione del problema italiano del secolo scorso.(…)

Dal Rinascimento l’Italia aveva posto al centro i problemi artistici, letterari, culturali. Il merito del Risorgimento è stato quello di porre anche se in modo insufficiente, i problemi politici e sociali sentendone il valore morale e magari religioso. Il problema non si risolve con tentativi artificiosi di uscire da questo piano, ma ricercando su questo piano quelli che sono oggi i valori reali ed essenziali.(…)

(1935, in “Giustizia e Libertà”)

F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pag.33 e 34


La Chiesa

Il metodo del gentil simbolismo è veramente splendido.
La società di Gesù si sente evidentemente rinascere ancora di fronte a quella foresta di aggrovigliati e politici simboli e miti fascisti. E riprende quel metodo e quel cammino che usò secoli or sono con i bramani o i confuciani per convertirli al cattolicesimo. Dal fatto, al simbolo; dal simbolismo al gesuitismo: la strada è larga e ben segnata, e la società di Gesù vi si precipita.(…)
Ecco il benestare dei Gesuiti al fascismo, visto dall’alto di una lunga e annosa esperienza come un giovane pargolo che malgrado qualche scappatella, malgrado qualche esagerazione, è veramente un buon ragazzo e pieno di riverenza e di rispetto per chi la sa più lunga ed ha maggiore autorità.(…)
Il che è un modo, seppur gentilmente simbolico, di dire al fascismo che non ha assolutamente nessuna originalità di pensiero, che quel poco di cui si era ammantato gli veniva da fonti estranee e che ora, riconosciuta la sua sterilità fondamentale farebbe bene a decidersi ad entrare una volta per tutte nelle braccia della chiesa che, come è noto, non ha altra fame che di delusi, di scettici e di increduli purché ben decisi a rassegnare nelle mani di lei la soluzione dei loro dubbi..(…)
Insomma non dovrebbe più essere permesso oggi ancora pensare differentemente dalla “Civiltà Cattolica”.

(1937, in “Giustizia e Libertà”)

F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pagg 106 e 108


La Scuola

La decadenza della scuola media è diventato ormai un ritornello nella bocca di quelli che si occupano di cose italiane. Anche i giornalisti fascisti non tengono più nascosto simile fatto di dominio comune.(…)
Ecco il risultato di aver voluto dare un’importanza artificiosa allo studio del latino e di aver voluto imporlo dappertutto. Questa lingua torna ad essere, ora, (…) una lingua da preti.

(1937, in “Giustizia e Libertà”)

F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pag. 98

(…)Vivo ora in Italia, in un paese cioè in cui se un giovane vuol poter entrare in una università dove si studia la storia, poniamo, ad esempio, dell’intellingencija russa o del movimento operaio europeo, è tenuto a fare un liceo in cui leggerà obbligatoriamente, sul testo originale, le poesie non soltanto di Orazio, ma anche quelle di Anacreonte. E questo poprio nel paese, in Italia, in cui gli illuministi settecenteschi, grandi o piccoli, accanto alla critica della legge, della tradizione romana cominciarono a criticare anche l’insegnamento obbligatorio del latino. Evidentemente, in Italia, il classicismo ha vinto, per delle ragioni che non è il caso di esaminar qui. Quel che è certo è che il rapporto fra la tradizione umanistica e le realtà politiche, sociali, è evidentemente molto più complesso di quel che può apparire a prima vista. La permanenza di miti umanistici, la sopravvivenza degli dei antichi può non essere affatto una presenza, un’identificazione, come addirittura sostiene Peter Gay. E’ talvolta un ornamento, non una realtà, una superstizione, non una religione.(…)

F. Venturi, UTOPIA E RIFORMA NELL’ILLUMINISMO, Torino 1963, Einaudi


Il Secolo dei Lumi

I Philosophes.

(…)I tecnocrati sono in realtà un partito che si maschera dietro la tecnica o dei tecnici che la situazione costringe ad assumere il compito dei politici? Non è forse meglio tornare ad interpretare gli enciclopedisti come dei philisophes e dei riformatori, della gente che viveva per le proprie idee e che trovò una strada per modificare la realtà che li circondava? La loro storia resta quella dei loro programmi e delle loro lotte.(…)

F. Venturi, Utopia e riforma nell’illuminismo, Torino 1963, Einaudi

L’Enciclopedia

(…) I primi due volumi dell’Enciclopedia sono ancora quasi esclusivamente l’opera di giovani poco noti, socialmente al margine della società ufficiale, spesso personalmente poveri o bohémes, circondati spesso da quella fama di increduli e di atei che è l’aspetto più visibile, più superficiale talvolta, della loro intima rottura con le tradizioni, le convenzioni, con il mondo che li circonda.

Superata la crisi del 1752 collaboreranno all’Enciclopedia Voltaire e Montesquieu, quasi a riallacciare con i loro grandi nomi l’illuminismo della prima metà del secolo con quello per tanti aspetti diverso di Diderot, di Jean-Jacques Rousseau, con il materialismo di d’Hobach, l’utilitarismo di Helvétius e il nuovo pensiero economico dei fisiocratici.(…)

F. Venturi, Le origini dell’Enciclopedia, Torino 1940-1946, Einaudi


Socialismo

La fase realizzatrice del socialismo che è la nostra, le esperienze della Russia, delle sconfitte, del fascismo e del Fronte Popolare non permettono dunque più di pensare il socialismo nei termini di vent’anni fa. La critica dei fatti è stata potente e renderà vana ogni speranza di ritorno indietro. Il problema dei rapporti del socialismo con la democrazia e la libertà, del classismo con i compiti di ricostruzione che ci attendono, dello stesso ideale statalista, tecnicista e burocratizzante che caratterizzava non poca parte del socialismo dei nostri padri con le moderne esigenze della politica è ormai posto dai fatti stessi. O il socialismo farà il necessario passo avanti anche sul terreno delle idee e degli ideali ed abbandonerà tutto quanto in lui è definitivamente morto, o esso farà fallire quella rivoluzione che è già nelle cose e che attende la nostra opera cosciente per uscire alla luce.(…)

L’eclettismo è la macchia d’origine di troppi critici moderni del socialismo. Ma è eclettismo che nasce dalle cose stesse, dall’epoca del Fronte Popolare, in cui internazionale e azione, classe e democrazia si sovrapponevano senza interne revisioni. E’ la tattica dell’alleanza di classe portata sul terreno ideologico: accettare, oltre il socialismo, “anche” la democrazia, la libertà e magari l’umanesimo. Finiti dunque male non perchè critici, ma perchè non hanno criticato sufficientemente a fondo e cioè non hanno capito la necessità della revisione di alcuni presupposti fondamentali della tradizione socialista. Mancanza di coraggio che si è tradotta, sul terreno pratico, nella rinuncia a combattere di volta in volta i nemici più duri del socialismo.(…)

Il socialismo moderno non può non essere profondamente antitotalitario.(…)

(1943, in “Quaderni dell’Italia Libera”)

F. Venturi, La Lotta per la libertà, Torino 1996, Einaudi, pagg 246 e 250


Biografia

Franco Venturi è nato a Roma nel 1914 ed è morto a Torino del dicembre 1994. Con una differenza di soli tre anni la sua vita ha percorso lo spazio cronologico (1914-1991) che Eric Hobsbawn ha indicato per definire il suo Secolo breve(1) Questa raccolta di Scritti politici permette di ripercorrere una parte importante della sua vita, in cui la ricerca intellettuale si è strettamente intrecciata con l’impegno politico e che Venturi non ha mai raccontato apertamente.

Venturi nacque da Ada Scaccioni e Lionello Venturi.

La famiglia era originaria di Modena e il nonno, Adolfo Venturi, aveva ricoperto a Roma la prima cattedra di Storia dell’Arte in Italia e inoltre aveva dato vita alla Scuola di perfezionamento per la formazione del personale per i musei e le sovraintendenze (1896) e aveva ideato nel 1888 l’Archivio storico dell’Arte che prese il nome di “Arte” nel 1898 -, la prima rivista d’arte di rilievo europeo”.(2) Lionello, invece, negli anni giovanili era stato ispettore delle gallerie di Venezia, Roma e Urbino e nel 1915 aveva vinto il concorso alla cattedra di Storia dell’Arte dell’Università di Torino. E a Torino era diventato punto di riferimento importante per molti giovani democratici. L’ambiente familiare, colto e antifascista, non poteva non incidere sulla formazione del giovane Franco. Al liceo D’Azeglio entrò in contatto con i gruppi clandestini antifascisti e in particolare con quello di “Giustizia e Libertà”. Gli esponenti più importanti del gruppo erano Aldo Garosci, Mario Andreis e Luigi Scola. L’attività di questo nucleo giellista si svolse nelle scuole e all’Università, con la diffusione di volantini e l’affissione di manifestini. A queste iniziative aderirono anche famosi intellettuali come Carlo Levi, Barbara Allason e Augusto Monti, attraverso il quale rimaneva vivo il ricordo dell’esperienza gobettiana che Venturi non aveva potuto conoscere.

Tra il novembre 1931 e il gennaio del 1932 il gruppo cadde nella rete repressiva dell’Ovra e lo stesso Venturi fu fermato e poi rilasciato. Anche a seguito dell’arresto del figlio, oltre che per il suo rifiuto di prestare giuramento di fedeltà al fascismo (uno dei soli 13 su circa 1200 professori universitari), Lionello decise di emigrare in Francia con la famiglia, trasferendosi a Parigi nella primavera del 1932.(3) Qui Franco, diciottenne, si iscrisse alla Facoltà di Arte della Sorbona e iniziò la sua attività antifascista. A casa del padre entrò in contatto con l’antifascismo italiano in esilio: Salvemini, Nitti, Garosci. All’Università con intellettuali radicali come David e Elie Halévy. Ma l’incontro più importante fu certamente quello con Carlo Rosselli, il fondatore del movimento “Giustizia e Libertà” a cui Franco aderì. La prima parte del volume raccoglie una scelta degli articoli che egli pubblicò tra il 1933 e il 1940, firmandosi con lo pseudonimo Gianfranchi, su “I Quaderni di Giustizia e Libertà” e sul settimanale “Giustizia e Libertà”. Inoltre, dopo la morte di Rosselli, egli continuò sul settimanale la rubrica “Stampa amica e nemica” con il nome di Libero Venienti. Si trattava di una rubrica settimanale in cui, attraverso il commento della stampa fascista e internazionale, Venturi si occupava dei temi a lui più cari, come la critica feroce della politica culturale e coloniale del fascismo, del dibattito internazionale sul socialismo, della polemica – come si noterà negli articoli qui scelti – verso l’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti delle dittature fasciste in Europa.

Il suo primo intervento di carattere politico apparve sul nono “Quaderno di Giustizia e Libertà” nel novembre 1933. Si intitolava “Nuova Spagna” (4) e Venturi definiva la rivoluzione spagnola come la rivoluzione delle “élites dirigenti”. L’origine di questo processo veniva indicata nel 1898, nella guerra contro gli Stati Uniti con cui la Spagna aveva perso le sue colonie d’oltremare. Era da allora che gli intellettuali spagnoli avevano iniziato a interrogarsi sulla loro nuova identità nazionale e culturale. In una lettera a Rosselli del dicembre 1933 Emilio Lussu esprimeva giudizi molto severi sugli articoli del “Quaderno” n.9, ma salvava soltanto l’articolo di Venturi: “Il giovane Lanfranchi – affermava Lussu – ha fatto un bello studio. Naturalmente incompletissimo, ma rivela ottime qualità. Bisogna fargli i complimenti”. (5)

Nell’analisi del contributo di Venturi all’organizzazione e alla definizione della linea politica di “Giustizia e Libertà”, della sua posizione all’interno del gruppo dirigente e nel dibattito sulle prospettive di lotta, della sua collaborazione giornalistica e del suo lavoro di redattore del settimanale “Giustizia e Libertà”, su tutto risalta l’inscindibile nesso tra riflessione storica e impegno civile, di cui sono esempi chiarissimi gli articoli su Bonarroti, Campanella, “Il fascismo contro Paoli” o l’ultimo, del luglio 1939, su “La Rivoluzione Francese e l’Italia”. Da questo punto di vista il dibattito sul Risorgimento (“Sul Risorgimento italiano” e “Replica di Gianfranchi” dell’aprile-maggio 1935) che si svolse sulle colonne del settimanale, è di gran lunga il più ampio e articolato tra quanti sviluppatasi nell’esilio antifascista. L’origine era dovuta ad una provocazione di Andrea Caffi, il rivoluzionario italo-russo, che sul numero di “Giustizia e Libertà” del 29 marzo 1935 aveva affrontato la questione del rapporto tra l’antifascismo giellista e la tradizione risorgimentale, rifiutando decisamente le necessità di un richiamo alle “sacre memorie” del Risorgimento italiano, definendolo un “residuo di vanità nazionale da mettere in soffitta”. Per Caffi il Risorgimento aveva racchiuso in un ambito nazionale fermenti e aspirazioni, pure esistenti, di più ampio respiro europeo e tutte le sue correnti, compresa quella democratica mazziniana, erano state impermeabili a una questione sociale già allora presente, come gli stessi studi di Nello Rosselli dimostravano. Gli esiti non potevano non essere quelli di un Risorgimento, “addomesticato, deviato, confiscato da profittatori equivoci”, che determinò “un disagio sociale ed un marasma della vita intellettuale in Italia, che hanno avuto per sbocco (tutt’altro che inaspettato) il fascismo”.(6)

Caffi dunque delineava un processo di sostanziale continuità tra la compagine statale prodotta dal Risorgimento e il fascismo, in ciò sostenuto anche da Nicola Chiaromonte, che intervenendo il 19 aprile 1935, a firma Luciano, dichiarava la propria esplicita avversione non soltanto al processo risorgimentale, ma al Risorgimento in sé, nel suo principio animatore: Chiaromonte usa l’espressione “impeto nazionale”, che ha deviato, pervertendola, ogni aspirazione alla libertà e alla democrazia.(7)

Santi Fedele ha spiegato l’evidente inaccettabilità di posizioni siffatte per un movimento come GL, il cui stesso motto “Insorgere-Risorgere” denota una chiara derivazione risorgimentale e nei cui fogli di propaganda è facile trovare il duplice accostamento tra fascismo e antirisorgimento e tra movimento antifascista e Secondo Risorgimento d’Italia.(8) La difesa del Risorgimento venne assunta da Rosselli e Franco Venturi. Rosselli stabilì una netta contrapposizione tra il “mito ufficiale e scolastico” del Risorgimento elaborato quell’ “Italia savoiarda, moderata, filistea”, sortita dal processo risorgimentale, e la tradizione popolare, democratica e repubblicana impersonata, nelle sue diverse espressioni, dai vari Mazzini, Cattaneo, Ferrari, Pisacane, Montanelli ecc., per i quali il problema dell’indipendenza non fu mai disgiunto da quello sociale, ma anzi “concepito come auto-riscatto del popolo non da una servitù altrui, ma da una servitù sua propria, morale, politica, economica”. Il Risorgimento come potenziale idea-forza ispiratrice della lotta politica andava pertanto, allo stesso tempo rigettato e accolto. Rigettato nei suoi esiti statuali, di cui il fascismo costituiva la degenerazione progressiva, ma accolto invece nel suo carattere rivoluzionario. Se non si fosse operata questa distinzione e si fosse rigettata in toto la tradizione risorgimentale, si sarebbe relegata alla storiografia sabauda e alla propaganda fascista in monopolio dello sfruttamento del mito risorgimentale.(9)

Se l’intervento di Rosselli risentiva delle preoccupazioni politiche di mediazione interna al movimento, Venturi, studioso poco più che ventenne, impostava la questione in termini prevalentemente storiografici, rifiutandosi di contrapporre al mito ufficiale e scolastico del Risorgimento un antimito negativo altrettanto mistificante, distinguendo tra quanto di localistico vi fu nel moto risorgimentale e quanto di autenticamente europeo, espressione cioè dello “spirito di libertà che animò il XIX secolo”. Richiamandosi esplicitamente ai contemporanei studi pubblicati da Adolfo Omodeo nella crociana “La Critica” (10), Venturi rifiutava il metodo di valutare avvenimenti e correnti politici col sistema del “vedere come sono andati a finire”: i successivi sviluppi dello Stato italiano non potevano proiettare l’ombra del discredito e della condanna a posteriori sulla passione unitaria che animò il Risorgimento nazionale.

Carlo Rosselli aveva intuito la vocazione profonda di storico e non di militante politico che animava il giovane Venturi (11), il quale aveva acquistato una solida preparazione storiografica nei corsi della Sorbona, dove frequentò le lezioni di Hazard, Glotz, Guignebert, Hauser, Renouvin, Mornet e Bèdarida. Ma sarebbe difficile capire la diversità e l’innovazione di un volume come la Jeunesse de Diderot (12), senza tenere conto di una dimensione come quella dell’incontro con uomini come Elie Halévy, il grande studioso del radicalismo e de L’ère des tyrannies, ma anche Salvemini, Rosselli e il pensiero di Piero Gobetti, a cui il riferimento era diretto nella monografia su Francesco Dalmazzo Vasco del 1940.(13)

Gli studi sull’Illuminismo proseguirono parallelamente alla sua attività politica, che divenne più intensa dopo l’uccisione di Rosselli del 9 giugno 1937. Il 14 maggio 1940 le truppe tedesche entravano a Parigi. L’emigrazione italiana antifascista si disperde. La famiglia di Venturi è già partita per gli Stati Uniti (14), Franco invece è rimasto a Parigi. Vuole assistere all’ingresso dei nazisti e solo dopo pensa di raggiungerla. Ma sfortunatamente non riesce ad arrivare in Portogallo, da cui doveva imbarcarsi : riconosciuto in Spagna viene denunciato da una spia. Arrestato viene gettato per circa un anno e mezzo in un carcere franchista, il sotterraneo di un convento, dove in un clima soffocante o rigido a seconda delle stagioni, gli oppositori del regime franchista venivano ammassati, senza neppure lo spazio per distendersi e costretti a cantare inni religiosi se volevano mangiare. I reclusi mancavano di tutto, nada era il vocabolo con cui si indicava l’assenza drammatica del cibo, e Nada sarà uno dei nomi di copertura che Venturi adotterà nella clandestinità italiana. Ai primi di marzo del 1941 fu consegnato al console italiano a Barcellona, trasportato a Genova e di lì a Torino, dove fu interrogato il 17 marzo (15). Dopo altri due mesi di carcere a Torino fu infine assegnato al campo di concentramento di Monforte Irpino, dove giunse nei primi giorni di maggio. Qui egli riprese subito a lavorare e, pur nelle difficili condizioni in cui si trovava, tradusse la herderiana Auch eine Philosophie der Gershichte, propostagli da Federico Chabod e pubblicata alcuni anni dopo la guerra. Con la famiglia lontana il suo punto di riferimento divenne Luigi Salvatorelli, che viveva a Torino. Salvatorelli, negli anni difficili dopo l’espulsione dalla carica di vicedirettore de “La Stampa” era stato aiutato, anche economicamente, da Lionello Venturi (16). E proprio a casa di Salvatorelli, nel 1942, Venturi venne a trascorrere una licenza dal confino, mettendosi in contatto col gruppo clandestino del Partito d’Azione piemontese, di cui facevano parte, fra gli altri, Giorgio Agosti, Alessandro e Carlo Galante Garrone, Livio Bianco, Giorgio Vaccarino (17).

Dopo la caduta di Mussolini egli tornò a Torino, assumendo la direzione di tutta la stampa clandestina del Partito d’Azione. La prima iniziativa fu quella di dare l’avvio alla pubblicazione del supplemento regionale dell’ “Italia Libera”. Ne uscirono nove numeri, che crebbero poco a poco, diventando più grandi anche nel formato e che persero l’iniziale carattere di manifesti di propaganda. Il numero del novembre 1943 era dedicato ai primi grandi scioperi torinesi, quello di dicembre portava i primi dettagliati bollettini partigiani, ed era ricco di “fatti ed esempi”. I nove numeri furono stampati parte a Torino parte nelle zone partigiane e trasportati in città, malgrado i blocchi e le perquisizioni. Nei momenti migliori si raggiunsero le diecimila copie e come scrive Venturi nell’articolo sulla “Stampa clandestina torinese” pubblicato nell’Appendice: “lo sforzo principale compiuto dall’ “Italia Libera” fu quello di non esprimere soltanto una volontà di lotta, ma di invitare alla riflessione sulle responsabilità che uomini e classi si erano assunti durante la dittatura e la guerra” (18). In collaborazione col centro di Milano del Partito d’Azione venne creato nel febbraio del 1944, un organo di stampa diretto agli operai, “Voci d’Officina”, che seguì attentamente gli sviluppi della Resistenza nelle fabbriche torinesi e le esperienze compiute dagli operai di altri paesi, nell’Europa centrale, in Francia, in Spagna. Anche di “Voci d’Officina” furono pubblicati nove numeri. Venturi ha ricordato come il Partito d’Azione, partito nato nella lotta antifascista, avesse bisogno più degli altri di elaborare il proprio pensiero e di farlo conoscere. “L’Italia Libera” e “Voci d’Officina” furono accompagnati perciò da una serie di opuscoli, “I quaderni dell’Italia Libera”, “Che intendevano rispondere alle domande fondamentali e far sentire una propria voce sui problemi della guerra, dello stato, del socialismo, della libertà, di quel domani insomma che la resistenza stava creando giorno per giorno”.(19) Furono pubblicati venti opuscoli, parte a Torino, parte a Torre Pellice e nel Canavese. Venturi ne firmò quattro, riportati nella seconda parte del volume. Venturi curò anche la pubblicazione della serie dei “Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà”, intervenendo sui problemi della stampa clandestina e sull’organizzazione del movimento. Ma nessuna delle questioni poste da Venturi in questi testi trovò all’interno del Partito d’Azione una rispondenza effettiva: l’intenso dibattito politico sino a tutto il 1945 documenta piuttosto l’isolamento di Venturi e del gruppo torinese, non solo nei confronti degli altri partiti presenti nel Cln, su questioni essenziali: dalla partecipazione al governo Bonomia alla pregiudiziale antimonarchica, dalla discussione sulla forma-partito al rapporto tra l’iniziativa militare e identità politica per legittimare un sistema democratico dopo la conclusione del conflitto (20).

La militanza partigiana di Venturi non si limitò soltanto alla cura della stampa: per incarico della direzione politica e del comando di “Giustizia e Libertà” girò tutto il Piemonte a risolvere le situazioni militarmente e politicamente più delicate, come durante l’assedio repubblicano di Alba dell’ottobre 1944.

La fine della guerra segnò anche per Venturi l’inizio del disimpegno politico e della travagliata ricerca di una carriera professionale. L’abbandono della politica non fu però immediato. Prima di accettare la proposta di Manlio Brosio di recarsi a Mosca come addetto culturale dell’Ambasciata italiana (21), dal 24 agosto 1945 al 28 aprile 1946 diresse il quotidiano torinese “GL”. Firmò numerosi editoriali descrivendo con preoccupazione l’evolversi della situazione nazionale e internazionale, la fine della speranza di una vera rivoluzione democratica in Occidente. Di grande interesse sono tre articoli dal titolo Tre possibili rotture in cui individuò quali fossero le debolezze della situazione italiana su cui le forze reazionarie potevano fare perno per cercare di dividere le forze democratiche: il Sud, che non aveva mai avuto una rivoluzione democratica come quella del nord e dove occorreva rapidamente avviare una politica che cancellasse i privilegi e le forme di oppressione; le campagne, dove la lotta partigiana non era riuscita a coinvolgere le classi contadine e dove, come nel Sud, continuavano ad esistere ancora troppi privilegi da superare; e infine i ceti medi e la borghesia, che avevano ottenuto posti di privilegio all’ombra del fascismo e che cercavano ora di difenderli anche nella nuova situazione.

In Venturi vi è anche chiarissima la consapevolezza che la possibilità della rivoluzione democratica in Italia dipende dagli sviluppi della situazione internazionale dopo la guerra. E a questo proposito il 24 agosto 1946 firma un importante fondo dal titolo Non intervento, in cui denuncia come dalla nefasta teoria del “non intervento” si stesse passando all’altrettanto pericoloso principio delle “sfere d’influenza”. Le grandi potenze si erano sì convinte che fosse necessario intervenire con la loro forza, le loro idee e i loro eserciti, che non potevano più lasciare la politica mondiale nelle mani delle nazioni minori, ma cercavano però di fissare dei limiti a questo loro intervento, di stabilire delle zone in cui esso si potesse esplicare direttamente e apertamente. I timori di Venturi trovarono una conferma nella storia dell’Europa degli anni successivi e, durante la sua esperienza moscovita, potrà vivere da vicino la svolta internazionale della Guerra Fredda. Le elezioni del 1946, sul piano interno, avevano inoltre dimostrato le difficoltà di far esistere un partito come quello d’Azione nella realtà politica come quella italiana, divisa tra socialisti e comunisti da un lato e cattolici dall’altro.

A Venturi, come a tanti altri, che avevano deciso di non trasformare la politica in un mestiere, non restò, negli anni successivi, che la scelta del distacco, accompagnato però dalla sempre vigile volontà di continuare a perseguire, in piena autonomia, le proprie scelte civili e morali. Ne sono testimonianza i tre articoli sull’Unione Sovietica, pubblicati nella terza parte, e scritti tra il 1953 e il 1956: le speranze del dopo Stalin e del rapporto Chruscev si infrangono contro l’invasione dell’Ungheria. L’articolo pubblicato su “Il Mondo” il 6 novembre 1956, “Sangue per la libertà”, è l’ultimo intervento pubblico di carattere politico di Venturi e si conclude non a caso con l’appello alla “riscoperta della funzione autonoma degli intellettuali e militanti politici che non vogliono né la reazione e il clericalismo, né la restaurazione dello stalinismo”.

Dall’esperienza moscovita erano nati anche libri che hanno fatto di Venturi uno degli studiosi più noti nel mondo, non solo nel settore dell’Illuminismo, ma anche del pensiero politico e della società russi. Il Populismo russo, edito da Einaudi nel 1952, ha avuto altre quattro versioni in inglese, di cui la prima con un’introduzione di Isaiah Berlin, una in francese e una in spagnolo. Nel 1948 ha pubblicato, sempre per la casa editrice Einaudi, Jean Jaurés e gli altri storici della Rivoluzione, facendo conoscere in Italia la grande storiografia sociale legata a maestri come Albert Mathiez e soprattutto George Lefebvre. Venturi portò l’attenzione su Jean Jaurés e la sua proposta socialiste, che era stata il termine di confronto e di partenza per il rinnovamento della discussione storiografica sulla Rivoluzione e dedicò pagine straordinarie ad approfondire il tema della religiosità dei laici, che non potevano che essere scelta morale, civile e intellettuale. Tornato dalla Russia nel 1950, dopo aver vinto il concorso, insegnò Storia Medioevale e Moderna a Cagliari, dal 1951 al 1954. Nel 1954 pubblicò Alberto Radicati di Passerano, uno dei principali eroi gobettiani, un volume che ha aperto la stagione degli studi sull’Illuminismo radicale. Nel 1955 ebbe il passaggio all’Università di Genova, dove rimase sino al 1958, quando ottenne il trasferimento a Torino, alla cattedra di Storia Moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia, dove restò sino al 1984. Nel 1989 è stato nominato professore emerito dell’Ateneo torinese. La scelta di Torino – malgrado offerte non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti, per esempio Princeton – era dovuta al suo antico legame con la città, ma anche al progetto di dedicare gli anni successivi ad una ricostruzione dell’Illuminismo italiano, che superasse la prospettiva risorgimentale della storiografia precedente (il Settecento studiato soltanto in funzione dell’Ottocento e del Risorgimento visto a sua volta soltanto come espansione territoriale) e che permettesse di collegare gli spazi italiani al movimento illuminista e riformatore europeo. Le origini di questa ricerca possono essere rintracciate in due fondamentali relazioni: la prima fu quella sulla circolazione delle idee del 1954 al congresso dei risorgimentisti italiani; la seconda fu quella pronunciata a Stoccolma nel 1960, su invito di Federico Chabod, in occasione del nono congresso internazionale per le scienze storiche: L’Illuminismo nel Settecento europeo. Il risultato sono stati i quattro volumi del Settecento riformatore (Einaudi, Torino 1969-1990). Tra il 1958 e il 1965 Venturi aveva anche portato a termine un accuratissimo lavoro di scavo documentario ed insieme di ricostruzione biografica: si tratta della collana ricciardiana degli scritti degli Illuministi italiani, che uscirono in tre volumi consacrati ai lombardi, piemontesi e toscani, ai napoletani e ai riformatori delle altre terre italiane, in collaborazione con Gianfranco Torcellan e Giuseppe Giarrizzo. Nel 1969 fu invitato a tenere le Trevelyan Lectures di Cambridge, destinate a tradursi in uno dei suoi volumi più importanti: Utopia e riforma nell’Illuminismo, edito nel 1970 sempre da Einaudi. Nel 1973 pubblicò un confronto fra Italia e Europa, dalla fine del Settecento all’Unità, sotto il titolo Italia fuori d’Italia nel terzo volume della Storia d’Italia dell’editore Einaudi, saggio che gli valse il Premio Federico Chabod dell’Accademia Nazionale dei Lincei.

Dopo la pubblicazione del secondo tomo del quinto volume del Settecento Riformatore, nel 1990, Venturi iniziò le ricerche per il terzo tomo, dedicato alla Toscana di Pietro Leopoldo e alla Repubblica di Genova, ma un incidente a una gamba e la tragica scomparsa della compagna della sua vita, Gigliola Spinelli, resero difficili gli ultimi anni della sua vita. Ma con ammirevole determinazione riuscì a continuare a lavorare e ultimò le ricerche negli archivi e nelle biblioteche di Firenze. Nel 1992, insieme ad Alessandro Galante Garrone, pubblicò un curioso libro sul falso profeta Mansur e sulla sua riforma dell’ Alcorano (Sellerio, 1992). Il nome di Mansur nascondeva in realtà un giovanissimo Filippo Buonarroti e Galante Garrone e Venturi dimostrarono come, dietro quelle false corrispondenze da Costantinopoli del 1786, si potessero rintracciare le radici sottili del futuro radicalismo rivoluzionario europeo, giacobino e comunistico.

Venturi, dal 1959, dopo la scomparsa di Federico Chabod, è stato direttore responsabile della “Rivista storica italiana”, incarico che ha mantenuto sino al giorno della morte, avvenuta il 14 dicembre 1994.

Due giorni prima gli era stato conferito il Sigillo Civico del Comune di Torino e Venturi, già molto provato, aveva voluto rivolgere ai presenti un breve saluto di ringraziamento che aveva concluso con queste frasi ”Non ho certamente l’idea che tutto quello che avrei potuto fare l’ho fatto, ma comunque ne ho tratto questo: giovani e meno giovani, pensate sempre che le radici locali e le grandi idee che spazzano il cielo dell’Europa non possono mai essere separate”.

Leonardo Casalino

Luglio 1996


Note

       

(1) Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1995

(2) Adolfo Venturi tra il 1901 e il 1940 sintetizzerà tutta la sua esperienza intellettuale nei quindici volumi della Storia dell’Arte Italiana, una sorta di monumento al metodo storico positivistico, che va dall’età paleocristiana sino alla fine del Cinquecento.

(3) Su questo episodio, dei professori che si rifiutarono di prestare giuramento, è uscito in Germania, presso gli editori Haag-Herchen, nel 1944, uno studio di Helmut Goetz, “Der freie Geist und seine Widersacher”, che spero venga presto tradotto in Italia.

(4) Gianfranchi, Nuova Spagna, in “Quaderno di Giustizia e Libertà”, n.9, novembre 1933, pp. 22-32

(5) E. Lussu, Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di “Giustizia e Libertà”, a cura di M. Brigaglia, Sassari 1979, pp. 84-85

(6) Andrea (Andrea Caffi), Appunti su Mazzini, in “Giustizia e Libertà”, 29 marzo 1935. Caffi si riferisce probabilmente al saggio di Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, edito nel 1932.

(7) Luciano (Nicola Chiaromonte), Sul Risorgimento, in “Giustizia e Libertà”, 19 aprile 1935.

(8) Santi Fedele, E verrà un’altra Italia. Politica e cultura nei “Quaderni di Giustizia e Libertà”, Franco Angeli, Milano 1992, pp. 18-20

(9) Curzio (Carlo Rosselli), Discussione sul Risorgimento, in “Giustizia e Libertà”, 26 aprile 1935.

(10) Il riferimento è alla serie di Note critiche alla storia del Risorgimento. I Mazzini e Cavour che A. Omodeo pubblica ne “La Critica” nel corso del 1934 e del 1935.

(11) Cfr. G. Arfè, Carlo Rosselli nella storia del socialismo italiano, in Giustizia e Libertà nella lotta antifascista e nella storia d’Italia, La Nuova Italia, Firenze 1976.

(12) Franco Venturi, Jeunesse de Diderot (de 1713 à 1753), Paris 1939.

(13) Id., Dalmazzo Francesco Vasco (1732-1794), Paris 1940.

(14) Il gruppo dirigente di “Giustizia e Libertà” aveva impiantato a Marsiglia un’ “officina” di documenti falsi per far espatriare i militanti antifascisti. Lionello Venturi si era trasferito a New York, dove nel 1939 aveva fondato, insieme a Salvemini e a Borghese, la Mazzini Society e dagli Stati Uniti giungeva il denaro destinato agli esuli e necesssario per finanziare le operazioni di espatrio (Cfr. M. Salvadori, Giellisti e loro amici degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, in Giustizia e Libertà nella lotta cit, pp. 282-287.

(15) Cfr. Le dichiarazioni rese in quella data al commissariato di Pubblica sicurezza e trasmesse alla Divisione Polizia Politica che raccomandò il confino di polizia o il campo di concentramento. Le dichiarazioni sono conservate a Roma, Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, b 5356, Venturi Francesco.

(16) Ho trovato traccie di questo rapporto nell’archivio privato di Salvatorelli.

(17) Cfr. Alessandro Galante Garrone, Il calvinista del Partito d’Azione, in “La Stampa”, 15 dicembre 1944.

(18) Venturi, La stampa clandestina torinese cit, p. 83

(19) Ibid., p. 84

(20) Cfr., La lettera di Venturi a Manlio Rossi Doria, 24 maggio 1944, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, V, 1971, pp. 508-10. Per le posizioni di Venturi all’interno del Partito d’Azione cfr. Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione 1942-1947, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 200-1, 390-91.

(21) A Mosca si fermerà sino al 1950 quando tornerà in Italia per insegnare Storia Moderna e Medievale all'Università di Cagliari. Cfr. il bel saggio di Antonello Mattone, Franco Venturi e la Sardegna. Dall'insegnamento cagliaritano agli studi sul settecento riformatore, in "Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico", n. 48-50, 1950. Per la permanenza a Mosca i riferimenti in Manlio Brosio, Diario di Mosca (1947-1951), a cura di F. Bacchetti, Il Mulino, Bologna 1986. Di grande interesse sono anche  le Lettere da Mosca (1948-1948) a Giorgio Agosti, a cura di Aldo Agosti e Giovanni De Luna, in "Passato e Presente", n.35, maggio-agosto 1995, pp. 97-109.

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Il mestiere e la passione

UNA RICERCA SULL’EDITORIA LIBRARIA PIEMONTESE NEGLI ANNI 1945-1948

Per celebrare il 50° della Costituzione italiana e il 35° anniversario dello statuto regionale, il Consiglio Regionale ha varato un programma biennale di iniziative culturali. Tra queste, si è ritenuto di promuoverne una che favorisse una maggiore conoscenza dell’opera svolta dalle case editrici piemontesi nel periodo 1945 – 1948.

La nostra associazione ha ricevuto l’incarico di attuare una ricerca sulla produzione editoriale in Piemonte tra la fine della guerra e l’affermarsi delle istituzioni democratiche.

La finalità è quella di documentare la realtà editoriale della produzione libraria tra il 1945 e il 1948, attraverso la realizzazione di schede bibliografiche ragionate relative alle specializzazioni della letteratura, della saggistica, della storia, anche locale, della filosofia e dell’etica, nonché di testi scolastici e religiosi, in un primo tempo esclusi dalla ricerca.

Indice della Case editrici presenti nel volume

  • A & C FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE, Torino
  • ACQUA VIVA ED., Torre Pellice
  • AGM ED., ASS. GIOVANI MISSIONARI, Torino
  • AIANI E CANALE TIP., Torino
  • AIROLDI A., Verbania-Intra
  • ALFA, CASA ED., Novara
  • ALZANI G. TIP., Pinerolo
  • AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI CUNEO
  • AMOSSO G. TIP., Biella
  • ANRÒ Tip., Torino
  • ANTONIOLI C., Domodossola
  • ARDUINI E., T.E.A.T., Torino
  • ARETHUSA, Asti
  • ARGANON TIP., Arona
  • ARIONE ED., Torino
  • ARNEODO M., Torino
  • ARTI GRAFICHE, Torre Pellice
  • ASSOCIAZIONE CULTURALE PROGRESSO GRAFICO, Torino
  • ASS. NAZ. FRA INDUSTRIE AUTOMOBILISTICHE E AFFINI, Torino
  • ASTESANO TIP., Chieri
  • ASTESE dei F.LLI BONA TIP., Asti
  • ATEC, Cuneo
  • AURORA ED. – Torino
  • AUSONIA ED., Torino
  • AVAGNINA P. TIP., Mondovì
  • AVALLE R. L., Torino
  • A.V.E. SOCIETÀ LIBRARIA, Ivrea
  • BARAVALLE & FALCONIERI, Torino
  • BELLATORE, BOSCO E C., TIP., Casale Monferrato
  • BERNABÒ ED., Torino
  • BERRUTO, Torino
  • BERTELLO ISTITUTO GRAFICO, Borgo S. Dalmazzo
  • BIAMINO LIT., Torino
  • BOLDRINO, Cuneo
  • BONA, TIP. VINCENZO BONA, Torino
  • BONINO G. TIP., Torino
  • BORI TIP., Moncalieri
  • BOTTO-ALESSIO TIP., Casale Monferrato
  • BOVO M. ED., Saluzzo
  • CACCINI TIP., Omegna
  • CAI, CLUB ALPINO ITALIANO, Torino
  • CALANDRI, S. Moretta
  • CAMERA DI COMMERCIO, Torino
  • CAMICIOTTI TIP. ED., Torino
  • CAPELLA G., Cirié
  • CAPPELLI G. B. TIP., Varallo Sesia
  • CASALESE TIP., Casale Monferrato
  • CASANOVA F., Torino
  • CASTELLO P. TIP., Torino
  • CATTANEO E., STAB. TIP., Novara
  • CENTRO PICCOLA E MEDIA POPRIETÀ EDILIZIA, Torino
  • CENTRO SCUOLA DEL PARTITO D’AZIONE, Torino
  • CERVINIA, EDIZIONI D’ARTE, Torino
  • CETRA, COMPAGNIA ED. TEATRO, Torino
  • CHIANTORE – LOESCHER, Torino
  • CLAUDIANA, Torre Pellice
  • COMITATO GIULIANO, Novara
  • CONVITTO CONSOLATA, Torino
  • CORDA FRATRES ED., Torino
  • CULTURA PROLETARIA ED. , Torino
  • DAMONTE G., Torino
  • DE AGOSTINI, ISTITUTO GEOGRAFICO, Novara
  • DELLA SANTA ED., Novara
  • DEL SIGNORE ED., Torino
  • DE SILVA, Torino
  • DE THOMATIS A. TIP., Biella
  • DEPUTAZIONE SUBALPINA DI STORIA PATRIA, Alessandria
  • DIREZIONE OPERE EUCARISTICHE, Torino
  • DRUETTO LIBRERIA, Torino
  • ECLETTICA, LIBRERIA EDITRICE, Torino
  • EDITORIALE LANIERA, Biella (Roma)
  • EDIZIONI DEL MOVIMENTO DEI LAVORATORI CRISTIANI, Torino
  • EDIZIONI CITTÀ DI TORINO, Torino
  • EDIZIONI DI COMUNITA’, Torino-Milano
  • EDIZIONI DI LIBERTÀ ECONOMICA, Torino
  • EDIZIONI IL PARTIGIANO, Asti
  • EFFENNE ED., LA FARMACIA NUOVA, Torino
  • EGEA, Torino
  • EIC, Torino
  • EINAUDI, Torino (Roma, Milano)
  • ELAS, Torino
  • ELIO ED., Ciriè
  • ELIT, Torino
  • ELLE DI CI, LIBRERIA DOTTRINA CRISTIANA, Colle Don Bosco
  • ENTE PROVINCIALE PER IL TURISMO, Torino
  • ERIDANO ED., Torino
  • EX TYPOGRAPHIA “UNIONE BIELLESE”, Biella
  • FEDERAZ. DELLE UNIONI VALDESI, GRUPPO VALLI, Torre Pellice
  • FED. PIEMONTESE DEL P.R.I., Torino
  • FED. TORINESE DEL MOVIMENTO COMUNISTA D’ITALIA, Torino
  • FERRARI-OCCELLA TIP., Unione tip. ed., Alessandria
  • LA FIAMMA DEL S. CUORE, ED. S.O.S., Chieri
  • FIAT, Torino
  • FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE, Torino
  • FIORINI, Torino
  • FLORIAN ED., Torino
  • FRANCHINO G. TIP., Cuneo
  • FRASSINELLI, Torino
  • FRATELLI DELLA SCUOLE CRISTIANE, Alessandria
  • F.LLI MIGLIO TIP., Novara
  • FRATELLI OTTAVI, Casale Monferrato
  • F.LLI TARDITI TIP., Casale Monferrato
  • F.LLI TOSO TIP., Torino
  • GALLARDI TIP., Vercelli
  • GAMBINO ED., Torino
  • GATTIGLIA, Torino
  • GAUDENZIO S. TIP., Novara
  • GAZZOTTI & C., TIP. SUCC., Alessandria
  • GERLI, Torino
  • GHERONI, Torino
  • GHIRARDI M., TIP. EDITRICE, Chieri
  • GIAPPICHELLI, Torino
  • GIGLIO TOS TIP., Torino
  • GILI E., Torino
  • GIORGIO V., Torino
  • GIOVANE MONTAGNA, Torino
  • “GRANDE OPERA” ED., Torino
  • GRUPPO EDITORIALE ANARCHICO, Torino
  • GRUPPO UNIONE C. CAVOUR, Torino
  • I.C.A., Cuneo
  • ICO TIP., Ivrea
  • IL POPOLO NUOVO, Torino
  • IL VERDONE, Torino
  • I.L.I. ISTITUTO DEL LIBRO ITALIANO, Torino
  • (L’)IMPRONTA, Torino
  • INDUSTRIA ET LABOR Tip., Biella
  • ISTITUTO MISSIONI DELLA CONSOLATA, Torino
  • ISTITUTO SALESIANO ARTI GRAFICHE, Colle Don Bosco
  • ISTITUTO SPERIMENTALE ZOOTECNICO E CASEARIO PER IL PIEMONTE, Chieri (Torino)
  • ISTITUTO STENOGRAFIA COMMERCIALE G. V. CIMA, Torino
  • I.T.E.R., INDUSTRIE TIPOGRAFICHE EDITORIALI RIUNITE, Torino
  • KRACHMALNICOFF I. ED., Novi Ligure
  • L’ALPINA, Torre Pellice
  • “L’INFORMATORE INDUSTRIALE” ED. DE, Torino
  • LA GRAFICA CASALESE, Casale Monferrato
  • LA LINOTIPOGRAFICA, Torre Pellice
  • LA LITO ED., Torino
  • LAMBERTI, Torino
  • LA PALATINA, Torino
  • LA PIEMONTEISA ED., Torino
  • LASAGNA TIP., Trino Vercellese
  • LA SALUTE, TIP. EDITRICE, Torino
  • LA SESIA TIP., Vercelli
  • LA TIPOGRAFIA, Novara
  • LATTES, Torino
  • LAVAGNOLO, Torino
  • LE VELE ED., Torino
  • LEVROTTO & BELLA, Torino
  • LIBERTÀ ED., Torino
  • LICE-BERRUTI, Torino
  • M.N. ED., Novara
  • MARIETTI E., Torino
  • MARTANO G., Chieri
  • MEGA ED., Torino
  • MENDOLA G. ED., Novara
  • MIGLIETTA, MILANO & C., STAB. TIP., Casale Monferrato
  • MINERVA MEDICA, Torino-Saluzzo
  • MISSIONI ESTERE VINCENZIANE, Chieri
  • MONTALDI, Torino
  • MONTES, Torino
  • MONTRUCCHIO TIP., Torino
  • NAZIONALE COGNE ED., Torino
  • NAZZARI & NINCHI EDITORI, Torino
  • NEGRO ED., Torino
  • “O. P. COTTOLENGO” TIP. (DEL’), Pinerolo
  • OPERA DIOCESANA STAMPA, Torino
  • OPERAIA TIP., Cuneo
  • OPERAIA TIP., Saluzzo
  • ORMA, Torino
  • P. A. ED., Torino
  • PACCHIONI-ORNIERI, Torino
  • PACOTTO TIP., Torino
  • PAIDEIA, Arona
  • PALATINE, EDIZIONI PALATINE di RENZO PEZZANI, Torino
  • PALTRINIERI TIP., Novara
  • PANFILO, Cuneo
  • PARAVIA, Torino
  • PARROCCHIA DI S. TOMMASO, Torino
  • PARTITO COMUNISTA ITALIANO, Fed. di Cuneo
  • PARTITO COMUNISTA ITALIANO, Fed. di Novara
  • PARTITO COMUNISTA ITALIANO, Fed. di Vercelli
  • PARTITO LIBERALE ITALIANO, SEZ. PIEMONTESE – Torino
  • PETRINI, Torino
  • PIETRO TAJO, Pinerolo
  • PONTIFICIA UNIVERSITAS GREGORIANA, Torino
  • PONZONE A. TIP., Torino
  • POZZO, Torino
  • PROPAGANDA MARIANA ED., Casale Monferrato
  • PSIUP FED., Cuneo
  • QUARTARA, Torino
  • RAI, Torino
  • RAMELLA, Torino
  • RAMELLA, ARTI GRAFICHE, Biella
  • RATTERO L. TIP., Torino
  • RELIGIOSE DELL’ADORAZIONE PERPETUA DEL SACRO CUORE, Torino
  • REPETTO TIP., Torino
  • RIBET A., Torino
  • RICHARD G., TIP., Saluzzo
  • RIVA P. E C. TIP., Novara
  • ROGGERO & TORTIA Tip., Torino
  • ROSENBERG & SELLIER, Torino
  • RUATA ED., Torino
  • SALVETTI TIP., Torino
  • SAN FRANCESCO DI SALES TIP., Cuneo
  • SANPIERI TIP., Torino
  • SARIG TIP., Torino
  • SATEB TIP., Biella
  • SATET, Torino
  • S.A.V.I.T. TIP., Vercelli
  • SCARRONE, TIP., Torino
  • SCUOLA TIPOGRAFICA SALESIANA, Torino
  • SCUOLA TIP. S. GIUSEPPE, Asti
  • SEI, Torino
  • SET, IL DRAMMA, Torino
  • SILVESTRELLI & CAPPELLETTO, Torino
  • S.N. – S.E. (Senza nome dell’editore)
  • SOCIETÀ DI STUDI VALDESI, Torre Pellice
  • SOCIETÀ LIBRARIA EDITRICE, Tortona
  • SOCIETÀ SAN PAOLO, FIGLIE DI S. PAOLO, ED. PAOLINE, SOCIETÀ APOSTOLATO STAMPA, Alba
  • SODALITAS, Domodossola
  • SPAZIANI, Torino
  • SPE, Torino
  • STAB. POLIGRAFICO ED. DI C. FANTON, Torino
  • STAMPERIA ARTISTICA NAZIONALE – S.A.N., Torino
  • STELLA SAN DOMENICO ED., Torino
  • STF TRAFORO DEL MONTE BIANCO, Torino
  • STUDIO E LAVORO ED., Torino
  • SUBALPINA EDITRICE, Torino
  • SUPERGA, Torino
  • TAYLOR ED., Torino
  • T.E.C.A. – TIP. ED. COMMERCIALE ARTISTICA, Torino
  • TET – EDIZIONI TAURINIA TIP., Torino
  • TORINESE TIP., Torino
  • UFFICIO CATECHISTICO DIOCESANO, Torino
  • UNIONE DONNE ITALIANE, UDI, Torino
  • UNIONE INDUSTRIALE, Cuneo
  • UNIONE INDUSTRIALE, Torino
  • UNIONE LAVORATORI D’ITALIA, UIL, Torino
  • UTET, TORINO
  • VEGA, Torino
  • VERCELLI L. TIP., Omegna
  • VESCOVILE DEI PP. GIUSEPPINI TIP., Pinerolo
  • VIGLONGO, Torino
  • VINASSA, Asti
  • VINCIGUERRA A. TIP., Torino
  • VIRETTO A. TIP., Torino
  • VOGLIOTTI, STAB. GRAFICO, Torino
  • VOLANTE, Vemenia [Novara]
  • VOLANTE C., Torino
  • VOLANTE G. , Torino
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Pubblicazioni

Italia e Armenia

Prefazione dell’Autore.

Mentre diamo alle stampe questo opuscolo – che in buona parte è la raccolta, con parecchie aggiunte, di alcuni nostri articoli comparsi sulla rivista ARMENIA – gli avvenimenti precipitano e alcuni problemi da noi svolti forse saranno presto sorpassati. Non importa: l’opuscolo non perde il suo valore di attualità, poiché lo scopo principale è quello di far conoscere al pubblico italiano l’Armenia attraverso le sue relazioni con Roma antica e con le gloriose Repubbliche italiane, il martirio leggendario, l’eroismo silenzioso, e di riaffermare infine, per la millesima volta, il diritto indiscutibile all’indipendenza.

E ancora: mentre il belgio, la Serbia, la Polonia devono ottenere, secondo le solenni e ribadite dichiarazioni dell’Intesa, la loro completa giustizia, la sorte dell’Armenia – la più oppressa e la più martoriata di tutte le nazioni oppresse – è tuttora sospesa.

La nuova diplomazia della rinnovata Europa non deve più ripetere gli errori e le colpe della vecchia diplomazia. Tutti gli armeni – i morti e i superstiti – aspettano nell’estrema angoscia che anche per la loro patria sia fatta giustizia, la quale si rissume nel seguente immodificabile trinomio: indipendenza, riparazioni, garanzie.

Torino, ottobre 1918

A. Sarian


Relazione dell’Armenia coi Romani.

I Romani d’Oriente: tale il titolo dell’articolo – comparso nell’Eroica – in cui la penna affascinante di Ettore Cozzani tratteggia magistralmente la parte gloriosa ed importantissima che ebbe la nazione armena nella storia mondiale, durante i lunghi secoli della sua esistenza nazionale, le sofferenze inaudite a cui essa fu soggetta, la tenacia sovrumana, la fede incrollabile con cui lottò per molti e molti secoli sulla via scabrosa del progresso e della civiltà, e il suo diritto indiscutibile a ricostituirsi in Stato indipendente. “L’Armenia non è stirpe di servi – aveva esclamato un altro scrittore valente e generoso, Enrico Molè – ha anch’essa nel suo sangue antichissimo il suggello aristocratico della grande famiglia ariana, di questa sacra falange originaria donde si partirono tutti i popoli destinati alla gloria, e di cui il nostro Vico doveva poi divinare coll’ala del genio che scavalca i millenni la fraternità lontanissima… Tutta la storia di questo infelice popolo dimostra la sua superiorità etnica sulle plebi idolatre o semitiche”. Infatti la nazione armena, d’origine antichissima, entrò in relazioni – d’amicizia o d’inimicizia secondo le circostanze – coi popoli più antichi della storia, Assiri, Babilonesi, Egizi, Fenici…; e mentre molti di questi popoli – di cui alcuni scrissero fulgide pagine di gloria e di potenza – scomparvero definitivamente negli abissi misteriosi della storia, non lasciando nessuna traccia della loro esistenza, la nazione armena facendo pur essa più d’una volta la sua parabola: sventolando la bandiera dell’indipendenza, formando uno degli imperi più vasti della storia, decadendo nella più spaventosa delle schiavitù, poi risollevandosi ancora, insomma, con un’alternativa di decadenze e rinascenze che forse mai un popolo conobbe, trascinò sino fino ai dì nostri la sua travagliatissima esistenza, conservando intatti il ricordo incancellabile del glorioso passato e la fede incrollabile in un radioso avvenire. Anche i Romani ebbero lunghi secoli di relazioni con la nazione armena, e i due popoli, secondo le circostanze, dovettero amarsi o odiarsi, allearsi o combattersi, ma furono amici sinceri, avversari leali, ed in complesso si può asserire che essi – affini di razza, di sentimenti e d’ideali – vissero in buon’armonia. Molti re, molti principi armeni presero la loro educazione a Roma e portarono poi in patria la fiaccola della civiltà romana; parecchi altri, prima di salire sul trono d’Armenia, si recarono a Roma, per ricevere la corona reale dalle mani dei Cesari, con solenni festeggiamenti ed in mezzo ad una folla entusiasta e delirante. Grandi imperatori e celebri generali romani si recarono in Oriente, ora per combattere a fianco del popolo armeno i barbari dell’Asia, ed ora per rivolgere le armi contro di esso, avendo occasione ad ogni modo di conoscerlo da vicino e di apprezzarlo.

Una delle primissime relazioni d’amicizia dell’Armenia coi Romani la troviamo al principio del II secolo a.C. , quando Artaserse e Zareh – due principi armeni designati governatori dell’Armenia da parte di Antioco il Grande, della dinastia dei Seleucidi – volendo ricostituire la libera Armenia, ridotta a provincia macedone durante le marcie trionfali di Alessandro Magno, attraverso le ricche ed immense regioni dell’Asia Occidentale, si ribellarono contro i successori del grande Macedone, sventolando lo stendardo dell’indipendenza. E, per riuscire più facilmente nell’ardua e sacra impresa, i due valorosi principi pensarono di allearsi coi romani, inviando a tal uopo una missione a Roma. Il Senato romano, ben lieto di avere un alleato da opporre in Oriente contro i Seleucidi – nemici acerrimi dei Romani – fece calorosa accoglienze agli inviati armeni, riconobbe l’indipendenza armena, e promise ogni appoggio al rinascente Stato armeno. Sotto il valoroso re Artaserse – giacché Zareh regnò sopra una piccola regione – ed i suoi successori, l’Armenia conservò la sua indipendenza con varie vicende politico-militari, e non troviamo avvenimenti d’importanza nelle relazioni fra Roma e Armenia, quand’ecco, al principio del I secolo av. C., sorgere sull’orizzonte sull’orizzonte asiatico due figure eminenti – Tigrane, re d’Armenia, e Mitridate re del Ponto – che vogliono contendere la supremazia a Roma ed abbatterne ovunque la potenza e il prestigio. Mitridate aveva giurato – come Annibale – eterno odio contro i Romani, e per debellare la loro potenza, muove contro con numerose truppe armeno-pontiane e con una formidabile flotta: conquista in breve tutta l’Asia Minore, invade la Grecia e si prepara a marciare contro Roma. Il Senato romano, dinanzi alle gesta del nuovo Annibale, è in preda al massimo terrore, e per affrontare il temerario monarca, invia in tutta fretta Silla, il quale in seguito alle memorande vittorie di Cheronea ed Orcomene, obbliga Mitridate di accettare le gravissime condizioni di pace dettate da Roma. Intanto Tigrane, secondo le norme del trattato di alleanza stipulato con Mitridate, rivolge le sue armi contro l’Asia occidentale, e con un esercito numeroso e ben agguerrito, invade l’Assiria, la fenicia, la Palestina, la Cappadocia, la Cilicia…facendo sventolare in poco tempo le aquile armene su quelle vaste e ricche regioni, imprimendo terrore a tutti i popoli vicini e formando uno degli imperi più vasti che la storia registri. Raggiunto così l’apogeo di gloria e di potenza, Tigrane si accinge a fondare la nuova capitale del suo impero sulle sponde del Tigri, chiamandola dal suo nome Tigranocerta, ed abbellendola con pregevoli opere d’arte trasportate dalle città delle colonie greche dell’Asia Minore; inorgoglito quindi di tanta grandezza, si fa servire dai sovrani detronizzati – pare una ventina – nelle sue marce trionfali, fulminee e proclamandosi infine “Re dei Re”. Mitridate, che non aveva dimenticato il grave colpo inflittogli da Silla, e aspettava un’occasione favorevole per scagliarsi contro i Romani, invase di nuovo (73 av. C.) con un esercito formidabile i domini romani dell’Asia Minore. Ma neppure questa volta la fortuna arrise all’orgoglioso monarca; egli fu sconfitto da Lucullo e non trovò altro scampo se non rifugiandosi presso Tigrane il grande, suo genero. Lucullo inviò una missione a Tigrane per reclamare che gli si consegnasse Mitridate, minacciando altrimenti di marciare contro l’Armenia. Il Re dei Re rispose con sdegno, che in nessun caso egli avrebbe consegnato il suo ospite ai Romani, essendo ciò contro il diritto delle genti, contro le leggi internazionali, e se Lucullo volesse mettere in pratica le sue minacce egli saprebbe difendersi. Le grandi imprese di Tigrane – che da anni spadroneggiava in oriente e teneva un contegno arrogante, minaccioso contro i Romani, invadendone i domini asiatici ed approfittando di ogni occasione per colpirne il prestigio, avevano scosso il Senato romano, il quale tuttavia non aveva voluto finora rischiarsi in una guerra – di cui l’esito poteva essere catastrofico per la repubblica – contro il grande Armeno, e anche stavolta sarebbe venuti piuttosto ad un compromesso; sennonché Lucullo, fidandosi nella sua buona stella e contrariamente agli ordini del senato, marciò contro Tigrane, e assediò la città di Tigranocerta – la futura capitale – di cui la costruzione non era neppure terminata. Tigrane corse subito in aiuto della città assediata; abituato però a facili vittorie, e considerando quasi con disprezzo il nuovo avversario, non mise tutto il suo talento, tutta la sua attenzione nella nuova impresa, mentre Lucullo, ben conoscendo la forte tempra del nuovo nemico e le difficoltà dell’impresa, prese prudentemente tutte le misure per battere il monarca più temibile d’Oriente. Il cozzo fu tremendo, le perdite da ambo le parti furono gravissime, ma in ultimo Tigrane pagò il fio della sua negligenza, della sua temerarietà: egli fu sconfitto – la prima sconfitta della sua vita dopo numerose e brillanti vittorie – si ritirò in una posizione ben fortificata, per riorganizzare le sue truppe e vendicarsi dello scacco subito. il generale romano, tutto inorgoglito della vittoria insperata, valicate le catene del Tauro armeno, entrò nel cuore dell’Armenia e si accinse a marciare sulla capitale, Artasta. Ma i due re sconfitti – Tigrane e Mitridate – avevano giurato di battere a qualunque costo Lucullo. E difatti, in una memorabile battaglia sulle sponde del fiume Arazanì, essi decimarono le truppe di Lucullo, obbligando l’ambizioso generale a precipitosa fuga, e marciando di vittoria in vittoria, e incalzando e battendo ovunque le legioni romane, invasero ancora una volta la Cappadocia e minacciarono gli altri possedimenti romani dell’Asia. Lucullo non si diede per vinto: pensò alla rivincita, ma invano; le sue truppe prese dal panico, non vollero più seguirlo, mentre il Senato romano, terrorizzato ancora una volta dalle vittorie fulminee di Tigrane e non avendo più fiducia in Lucullo, lo richiamò a Roma, ed affidò la scabrosa questione di Oriente a Pompeo. La sorte arrise poco tempo a Tigrane: anche per il cesare armeno la parabola della fortuna era in discesa. Mentre il vecchio monarca era intento a raccogliere tutte le sue forze per misurarsi con Pompeo, suo figlio Tigrane il cadetto, impaziente di succedere al trono del padre, lo tradì, si rifugiò presso Pompeo, e promise di sostenere quest’ultimo con tutte le sue forze nella lotta contro suo padre. Lo stesso fece Fraate, re dei Parti, per vendicarsi delle sconfitte inflittegli tempi innanzi da Tigrane nelle sue marce travolgenti in Oriente. Intanto Pompeo, dopo aver sconfitto definitivamente Mitridate – tradito pure vilmente da suo figlio Farnace ebbe salva la vita fuggendo verso il Caucaso – ridusse a provincia romana il glorioso regno del Ponto e mosse con ingenti forze contro l’Armenia. Che poteva fare da solo l’ottantenne Tigrane contro tanti nemici forti ed implacabili? La sua mente chiaroveggente intuì subito che l’unico risultato della sua resistenza sarebbe la soggezione completa dell’Armenia ai Romani: per salvare ancora l’indipendenza armena non c’erano mezzi diplomatici. Egli domandò un colloquio con Pompeo per mettere le basi di un compromesso, senza spargimento di sangue; si recò personalmente al campo del valoroso generale che gli fece cordiali accoglienze, e i due Grandi si accordarono sulle condizioni di pace (66 av. C.), che furono gravissime per l’Armenia. Tutte le terre conquistate da Tigrane, e cioè la Fenicia, l’Assiria, la Mesopotamia, la Cilicia… furono restituite ai Romani, rimanendo al vecchio monarca solo il territorio patrio, il regno armeno propriamente detto: l’Armenia doveva pagare come indennità di guerra 3000 talenti (circa 33 milioni di fr.), ed infine, secondo un’ultima clausola, i re armeni, prima dell’assunzione al trono, dovevano avere il consenso di Roma. Dopo di ciò, Pompeo proclamò Tigrane amico ed alleato dei Romani. Tutto era perduto, ma fu salva l’indipendenza armena. In quanto a Mitridate, è nota la sua tragica fine: si ferì col proprio pugnale, e pregò quindi un soldato gallo di spegnerlo interamente, per non cadere prigioniero in mano al nemico. Tigrane il Grande morì ottantacinquenne, dopo quaranta anni di glorioso ed avventuroso regno.

La figura simbolica di Tigrane il grande raccoglie in sé tutto il genio, tutta l’energia della sua razza. Quest’uomo eccezionale racchiude nella sua grande anima la smisurata ambizione conquistatrice di Alessandro Magno, e lo spirito riformatore, riorganizzatore di Napoleone. Da monarca assoluto dei vecchi tempi, detronizzò sovrani, li adoperò quali umilissimi servitori a palazzo e nei viaggi attraverso i suoi immensi dominii – estendentesi dal Caucaso al Mar Rosso, dal Mediterraneo al golfo persico – e si proclamò orgogliosamente “Re dei Re”. Ammiratore e cultore appassionato della civiltà greco-romana, fece costruire ed abbellire grandiose città e fu valido sostenitore di tutte le energie capaci a far progredire il commercio e l’industria, il teatro e la letteratura, l’architettura e la scultura. Amato e adorato dal suo popolo, ammirato e temuto dai suoi nemici, intuì fin dal principio i bisogni e le aspirazioni del suo paese, e mettendo sopra ogni cosa il bene della patria, abbatté con mano ferrea e spietatamente i poteri decentralizzati, autonomi, che causavano la debolezza della Nazione, minacciando guai maggiori, e accentrò nelle sue possenti mani tutti i poteri dello Stato. Diede forte impulso alla potenza militare ed alle forze spirituali del Paese, non solo mettendo su basi solide, granitiche il territorio nazionale, ma bensì fondando con rapidità fulminea, vertiginosa uno degli imperi più vasti che la storia ricordi, e innalzando l’Armenia all’apogeo di gloria e di potenza. Un illustre romano dell’epoca – Cicerone – proclamò solennemente Tigrane “Potentissima rex Asiae”.

Artavasde – il re poeta, successore di Tigrane, amico sincero ed alleato dei romani – non ebbe fortuna. Egli fu vittima dell’ambizione e dell’inettitudine di Crasso prima e di Antonio poi, i quali vilmente incolparono Artavasde delle loro sconfitte in Asia, perché egli – dissero – non li aveva aiutati sufficientemente. E quando in seguito all’uccisione di Crasso sui campi di Mesopotamia gli succedette Antonio, ed egli pure subì gravi sconfitte, si finse amico del re armeno, dopo ripetute lusinghe lo trasse in trappola, e stretto in catene d’oro lo condusse prigioniero in Egitto. Dopo la clamorosa sconfitta di Antonio ad Azio, Ottaviano volle liberare lo sfortunato re armeno. Ahimè, troppo tardi! La famigerata Cleopatra in tutta fretta l’aveva fatto decapitare. Artavasde lasciò scritti pregevoli in prosa ed in versi. Antonio aveva designato suo figlio Alessandro quale successore al trono dell’Armenia; ma tale successione fu solo nominale, in quantochè Artaserse – figlio di Artavasde – che si trovava alla corte dei Parti, rivendicò a sé il trono di suo padre, sbaragliò gli avversari, e salito sul trono dell’Armenia, fece massacrare – per vendicarsi della morte di suo padre – tutti i romani residenti o di passaggio in Armenia. Ciò suscitò le ire di Augusto che si recò personalmente in oriente, ma non volendo venire ad una guerra con gli Armeni, i quali certo avrebbero avuto l’aiuto dei Parti – nemici inconciliabili dei romani – ricorse a mezzi diplomatici, creando in Armenia un partito romanofilo che patrocinava l’assunzione al trono di un altro figlio di Artavasde, Tigrane IV, educato alla Corte Imperiale e che si trovava tuttora a Roma. Perché bisogna notare in proposito, che le esperienze fatte sinora da Roma per soggiogare l’agguerrito popolo armeno, avevano dato risultati assai disastrosi; l’essenziale era quello di averlo amico ed alleato contro gli altri popoli d’Oriente in generale, e contro i Parti in particolare. Augusto riuscì nell’intento, e Tigrane fu assunto al trono senza colpo ferire, giacché nel frattempo Artaserse fu ucciso dai suoi avversari. Ma Tigrane IV ebbe breve vita e salì sul trono Tigrane V – nemico dei Romani – il quale pure fu ucciso presto in una guerra coi popoli vicini sobillati dai Romani, prima che Caio – inviato da Augusto – arrivasse in Armenia. Dopo la morte di Tigrane V, una ridda di sovrani – per lo più stranieri – salirono sul trono dell’Armenia, alcuni col consenso di Roma, altri contro; ma nessuno ebbe fortuna: furono perseguitati, detronizzati, assassinati…soprattutto per il motivo che non erano di nazionalità armena, e quindi il paese era in completa anarchia, finché Tiberio, per stabilirvi l’ordine e la tranquillità, mandò Germanico. Questi, con le sue buone qualità, segnatamente per il suo carattere mite, dolce, seppe accaparrarsi difatti le anime e mise sul trono Zenone, figlio di re Polemo del Ponto, sotto il nome di Artaserse III, che fu accolto con entusiasmo dal popolo armeno. Purtroppo la calma non fu durevole, poiché dopo la morte di Artaserse III, l’ambizioso Artabano, re dei Parti, mise sul trono armeno suo figlio Arsace contro il consenso di Roma e, con lo scopo di ristabilire il vasto impero di Dario e di Serse, si preparò ad invadere la Cappadocia e gli altri domini asiatici di Roma. Ancora una volta l’Armenia diventa il campo di sanguinose battaglie tra i Parti ed i Romani; ancora una volta la corona molte volte insanguinata dall’Armenia viene contesa tra mille mani. Altre detronizzazioni, altri assassini di sovrani…e lo stato caotico perdura per anni ed anni. Infine, un uomo d’ingegno e di valore, Vologeso – re dei Parti – approfittando dell’occasione favorevole e sfidando le ire di Roma, innalza sul trono armeno suo fratello Tiridate. Era il segnale di un’altra serie di guerre fra Parti e Romani sul suolo armeno. E infatti, Nerone, che era appena salito sul trono dei Cesari, ordinò immediatamente al valoroso Corbulone di rialzare il prestigio di Roma in Oriente. L’insigne generale, con un forte nerbo di legioni romane e di truppe degli alleati d’Asia, invase l’Armenia e mise a ferro e fuoco tutto il paese. Tiridate era rimasto con poche truppe armene, perché suo fratello Vologeso era occupato altrove a domare una ribellione; tuttavia si decise a difendere ad ogni costo il suo trono e protestò energicamente contro il barbaro metodo di Corbulone di condurre la guerra. Il generale romano rispose che il suo scopo non era l’occupazione dell’Armenia: voleva solo che il nuovo re ricevesse la corona armena dalle mani di Neurone. Tiridate si rifiutò, combatté valorosamente, ma sopraffatto infine dalla schiacciante superiorità del nemico, dovette cedere. Corbulone, dietro l’ordine di Nerone, mise sul trono Tigrane VI – discendente di Erode il grande – il quale fin da principio riuscì odioso al popolo armeno che vedeva in lui il cieco strumento della politica neroniana. Intanto Vologeso aveva giurato di vendicarsi a qualunque costo dell’insulto fatto a suo fratello Tiridate. Questi con truppe armene assediò Tigranocerta dove si trovava Tigrane con legioni romane, mentre Vologeso affrontò Corbulone in Mesopotamia e vittoriosamente, in modo che il generale romano fu obbligato a domandare aiuto a Roma. Nerone inviò nel 61 Peto, perché mettesse fine una volta per tutte alla scabrosa questione armena. Ed invero dapprincipio la fortuna arrise al nuovo generale romano, ma presto le truppe parto-armene ebbero il sopravvento ed inflissero gravissime perdite all’esercito di Peto, il quale, obbligato a precipitosa fuga, si rifugiò con le sue legioni in Cappadocia, e venne a patti vergognosi. Le truppe romane dovevano ritirasi completamente dall’Armenia; Roma doveva disinteressarsi delle cose armene e sul trono dell’Armenia sarebbe risalito Tiridate: Vologeso avrebbe semplicemente avvisato Nerone del fatto compiuto. Raramente le aquile romane avevano subito umiliazioni più gravi. Durante il loro ritiro i soldati dovettero sopportare – per tema di peggio – tutti gli insulti della popolazione, che tolse loro inoltre giustamente tutto quanto avevano derubato al loro paese. Quando la notizia del clamoroso scacco toccato alle legioni romane in Armenia arrivò alla capitale, Nerone fu profondamente turbato, e decise a qualunque costo di prendersi la rivincita. Nominò Corbulone comandante in capo delle forze romane di terra e di mare, e gli affidò ancora una volta la conquista dell’Armenia. Ma Corbulone non si decise mai a dare battaglia campale alle truppe parto-armene: era troppo vivo in lui il triste ricordo degli scacchi subiti da Crasso, da Antonio, da Peto…D’altronde anche a Roma, l’ostinarsi in un’impresa, quale la conquista dell’Armenia, pareva troppo rischioso, troppo temerario; si trattava invece di salvare l’apparenza, di ristabilire, almeno apparentemente, il prestigio tanto scosso di Roma in Oriente. E si venne ad un modus vivendi, e la pace fu conclusa: si riconosceva la completa indipendenza dell’Armenia sotto un principe della dinastia degli Arsacidi, quale era Tiridate; solo tale principe doveva ricevere la corona reale dalle mani dei Cesari. Tiridate si mise quindi in solenne viaggio verso Roma, accompagnato dalla regina, da molti alti funzionari romani, da migliaia di truppe scelte armene e da numerosi servitori. Il suo transito attraverso i domini romani – che durò nove mesi – fu un vero trionfo: tutta la popolazione andava incontro al re d’Armenia per acclamarlo e per ammirare lo splendore della sua Corte… A Roma poi l’accoglienza fu delle più calorose. Una folle norme ed entusiasta assistette alla festa di incoronazione; il Senato presenziava al completo, e quando Nerone mise sul capo di Tiridate la corona d’Armenia, la gioia e l’entusiasmo del popolo raggiunsero il parossismo. Quindi furono organizzati banchetti, feste in onore del nuovo re e Nerone cantò e fece vibrare la sua cetra. Tiridate ricevette poi cospicui regali: tutte le spese del viaggio – che raggiunsero decine e decine di milioni di lire – furono pagate dal tesoro imperiale. Infine, Tiridate, dopo aver guadagnato l’affetto e l’ammirazione di Nerone e del popolo di Roma, fece ritorno in Armenia, che dopo tanti anni di battaglie sanguinose poté godere per un certo tempo la pace e la tranquillità. Purtroppo la pace non fu duratura, causa la rivalità tradizionale tra i Parti ed i Romani che contesero per secoli il sopravvento della loro influenza in Armenia; e finché Roma si accontentò di un’autorità puramente nominale, apparente, le cose andarono assai lisce, ma tutte le volte che ebbe la velleità di ridurre l’Armenia a provincia romana, la reazione fu vivissima, accanita, tanto da parte degli Armeni quanto dei Parti. Così vediamo Traiano, al principio del II secolo, invadere ancora una volta l’Armenia; ma tosto le sue legioni sono sconfitte, decimate, e nel suo letto di morte, avvenuta in Cilicia, vede con profondo dolore il crollo definitivo del suo sogno ambizioso. Adriano, suo successore, ritira spontaneamente le truppe romane da tutte le regioni armene. Anche Caracalla segue una politica di conquista, invade l’Armenia e volge quindi le sue armi contro i Parti, ma la fortuna non gli arride, perché tosto viene assassinato per le sue crudeltà, per opera di Macrino. Questi, succedutegli sul trono dei Cesari, continua la di lui politica aggressiva, finché sconfitto dalle truppe parto-armene segue di poi una politica conciliativa, sicché più tardi, quando Alessandro Severo (222-35) si reca in Oriente per difendere l’onore delle aquile romane contro i Persiani – come pure nelle guerre condotte dal medesimo imperatore contro i Germani – gli armeni combattono vittoriosamente a fianco delle legioni romane. Nel 242 sul trono di Persia salì Sapore I, e tenne una politica minacciosa contro l’Armenia e contro Roma. L’imperatore Filippo venne con esso vilmente a patti vergognosi, e lasciò alla sua sorte il suo alleato re Cosroe d’Armenia. Questi non si diede per vinto, continuò la lotta da solo resistendo vittoriosamente, finché Sapore lo fece assassinare a tradimento e mise l’Armenia sotto il protettorato persiano con un governatore armeno, mentre il piccolo Tiridate, figlio ed erede di Cosroe, liberato da morte sicura, veniva consegnato alla Corte di Roma. Fortunatamente, poco dopo, le redini dell’impero passarono nelle mani energiche di Diocleziano, e le aquile romane ebbero ancora una volta il sopravvento in Oriente su quelle persiane. Tiridate fu coronato a Roma re d’Armenia dalle mani di Diocleziano; partì verso l’amata Patria, ove il popolo gli fece accoglienze calorose, e stretto intorno al suo valoroso re, cacciò da tutto il paese la dinastia straniera dei Sassanidi.(…) Quand’ecco affacciarsi al principio del XI secolo la valanga travolgente dei turchi selgiucidi, condotti dal loro terribile capo Togrul Beg. Al tremendo cozzo crollarono successivamente, dopo una resistenza accanita, i due fiorenti regni degli Arzuni dapprima, dei Bagratidi di poi. Tutta l’Armenia fu messa a ferro e fuoco. Nessun dolore, nessuno strazio fu risparmiato all’infelice paese: quelle orde barbariche vi commisero tutte le violenze, tutte le atrocità, che la loro maledetta razza ripeté in seguito in ogni angolo di terra che ebbe la suprema sventura di subire il loro giogo. Molti armeni non vollero sottostare al pesante giogo dei turchi ed emigrarono a Bisanzio, in Russia, in Polonia, in Italia, in Ungheria…; altri, valicate le catene del tauro, si stabilirono in Cilicia e, sotto la guida del principe Rupen – della dinastia dei Bagratidi – cacciandone i Bizantini, vi fondarono un principato che, più tardi, sotto Leone il Magnifico, si trasformò in regno: il regno dell’Armenia minore. Questo valoroso monarca ripeté le gesta dei suoi predecessori – dei Tigrani, degli Artasersi, dei Tiridati – e volando di vittoria in vittoria, e debellando tutti i suoi, ingrandì notevolmente i confini del suo regno.

Il regno dell’Armeno-Cilicia costituisce una delle pagine più fulgide della storia armena. E’ in questo periodo che i Crociati trovandosi ai confini dell’Armenia smarriti fra genti nemiche e barbare, gli armeni – i soli fra tutti i popoli d’Oriente – accolsero con entusiasmo i soldati d’Occidente, li soccorsero con vettovaglie ed armi, e abbracciando la loro santa causa, pugnarono eroicamente contro i mussulmani, eterni nemici della civiltà occidentale. Pure in questo periodo la nazione armena strinse intime relazioni coi popoli d’Occidente ed in ispecie con le gloriose Repubbliche italiane: Venezia, Genova, Pisa… le quali relazioni formeranno per l’appunto l’argomento del capitolo seguente.


La questione armena.

Il destino volle che un popolo originario della più aristocratica delle razze umane – la razza ariana – dotato di alte qualità intellettuali, spirituali, capace di gareggiare coi popoli nobili, più eletti d’Occidente sulla via del progresso e della civiltà si trovasse solo, isolato, lontano dai suoi fratelli d’Europa , in quelle zone montuose dell’Asia occidentale che si estendono fra il Caucaso, il Mar Nero ed il Mediterraneo sulla strada maestra delle classiche invasioni storiche, circondato da genti barbare e refrattarie ad ogni civiltà. Ecco l’origine delle continue ed immense sofferenze che afflissero l’infelice Armenia.. Ecco la vera causa, la sintesi delle cause del lungo e atroce martirio del popolo armeno.

Abbiamo accennato nei capitoli precedenti come gli armeni dopo aver sventolato la bandiera della libertà, dell’indipendenza contro gli imperi vicini e potenti che volevano soggiogarli, siano riusciti a fondare il loro vasto impero sotto Tigrane il grande raggiungendo l’apogeo di gloria e di potenza, prima che Augusto venisse proclamato imperatore dei Romani e mentre l’Europa spasimava in uno stato caotico. Come gli armeni abbiano accettato il Verbo novello, la nuova civiltà cristiana, convertendosi in massa – sovrano e popolo – alla religione di Cristo prima che Costantino il grande proclamasse su Ponte Milvio il cristianesimo religione di Stato. E come in fine attaccata dai due colossi vicini – la prepotente Persia e l’insidiosa e perfida Bisanzio – l’Armenia venisse spartita fra questi due imperi.

Cinque lunghi secoli di servitù e di sofferenze inaudite non bastarono a spegnere il genio e lo spirito ribelle della razza, finchè nel secolo IX gli armeni riuscirono a risollevare, rialzare lo stendardo dell’indipendenza, fondando i due gloriosi regni degli Arzruni e dei Bagratidi.

Ahimè! dopo aver scritto splendide pagine nel gran libro della storia, i due regni crollarono successivamente, non senza una resistenza accanita al terribile cozzo dei turchi Selgiuchidi. Da allora trascorsero più di cinque secoli, e l’Armenia geme tuttora sotto il pesantissimo tallone del turco. Da cinque lunghi secoli l’Armenia lotta disperatamente, stretta nelle catene d’una tirannide senza pari, per difendere la sua civiltà e per conservare i vincoli spirituali, ideali che l’avvincono all’Occidente, sperando sempre sull’aiuto dell’Europa cristiana, soprattutto del vicino e potente Impero dei Moscoviti. Ed invero la Russia, fino dai tempi di Pietro il Grande e di Caterina II, rivolse la sua attenzione e dimostrò la sua simpatia verso il popolo armeno, facendo rinascere in esso le più rosee speranze nella prossima liberazione e nella ricostituzione dell’antico regno d’Armenia. Ma le promesse russe non furono mai realizzate, per quanto gli armeni abbiano aiutato la Russia nelle sue guerre contro la Turchia, con massimo slancio e con la massima abnegazione, contribuendo non poco al successo finale. Sopra tutto nella guerra russo-turca del 1877-78, in cui una parte dell’Armenia turca fu invasa ed occupata dalla Russia, la nazione armena dimostrò il suo sincero attaccamento all’impero deli Zar. Fra l’altro essa diede parecchi capi che condussero l’esercito russo alla vittoria: i generali Loris-Melicoff, gugassof, Lazaref erano armeni e degni discendenti di Tigrane il Grande e di Leone il Magnifico.

Il trattato di Santo Stefano mise fine a tale guerra e la Russia ricompensò l’Armenia con l’art. 16 di quel trattato: “La Sublime Porta – dice l’articolo – s’obbliga a realizzare senza alcun ritardo, i miglioramenti e le riforme che esigono i bisogni locali nelle province abitate dagli armeni e a garantirvi la loro sicurezza contro i Curdi e i Circassi”. Ciò non piacque all’Inghilterra, che vedeva in quella mossa un aumento di prestigio della Russia ed un pretesto per immischiarsi nelle faccende interne dell’ impero ottomano. Volle paralizzare l’azione della Russia, ed intervenne stipulando con la Turchia la convenzione di Cipro, per cui “d’accordo col governo britannico, la Sublime Porta doveva introdurre nei suoi possedimenti d’Asia Minore tutte le istituzioni proprie a rialzare lo stato di quelle popolazioni cristiane e musulmane; e affinché l’Inghilterra potesse aiutare più efficacemente in ciò il Sultano, essa era autorizzata ad occupare ed amministrare l’isola di Cipro”. Ma la fosca commedia degli interventi non finiva più. I difensori dell’Armenia aumentavano a vista d’occhio.

I difensori dell’Armenia aumentavano a vista d’occhio. In realtà nessuno pensava sinceramente a migliorare le condizioni degli armeni.. Ogni Potenza meditava invece un trucco per paralizzare l’azione delle altre e la questione armena offriva ottima occasione per aumentare – con le lusinghe o con le minacce – il proprio prestigio, la propria influenza presso la Sublime Porta e preparare un lauto boccone alla morte dell’eterno agonizzante: l’Impero turco. In quanto all’ Armenia, per la cinica diplomazia della cosiddetta Europa civile, essa aveva un solo diritto, un solo dovere: quello di immolarsi sull’altare dell’interesse delle singole Potenze. L’atroce martirio d’un intero popolo era ben poca cosa in paragone a qualche concessione ferroviaria, postale doganale, ecc. ecc. Ah! le famigerate concessioni…. L’Armenia le pagò con torrenti di lacrime, con sofferenze inenarrabili, con fiumi di sangue!

Ecco intervenire infatti alla loro volta le altre grandi Potenze europee per abolire gli effetti del trattato di S.Stefano e della convenzione di Cipro stipulando il trattato di Berlino (1878), in cui l’articolo 61 dedicato all’Armenia è così concepito: “La Sublime Porta si obbliga a realizzare, senza alcun ritardo, i miglioramenti e le riforme che esigono i bisogni locali nelle province abitate dagli armeni e a garantire la loro sicurezza contro i Circassi e i Curdi. essa darà periodicamente conoscenza delle misure prese a tal fine alle Potenze, che, ne sorveglieranno l’applicazione”. Le famose riforme non vennero mai. Anzi, dopo ogni richiesta di riforma le condizioni degli armeni peggiorarono sempre di più, le atrocità turche si fecero sempre più feroci, culminando nei tremendi massacri del 95-96 in cui 300.000 armeni perdettero la vita! Solo a Costantinopoli, sotto gli occhi degli Ambasciatori delle grandi potenze, ne furono massacrati 10.000.

Che fecero i firmatari delle riforme del trattato di Berlino? Intervenne l’Inghilterra con la minaccia di ricorrere alle armi se non cessavano i massacri. Ma intervennero pure la Russia e la Germania: la prima, facendo consegnare dal suo ambasciatore al Sultano all’indomani delle stragi, ricchissimi doni, una lettera autografa (di congratulazioni) dello Zar Nicola e concentrando numerose truppe nel Caucaso, in difesa dell’impero dei massacri da qualsiasi attacco; la seconda, facendo rimettere al Sultano una fotografia di Guglielmo II, il quale più tardi, calpestando il cumulo di centinaia di migliaia di cadaveri armeni, offrì al mondo il macabro spettacolo di recarsi personalmente a Costantinopoli, per stringere le mani ancora grondanti di sangue armeno al Sultano Abdul-Hamid, il “Sultano Rosso”, il “Grande Assassino” come lo bollò scultoriamente Gladstone.

Intanto cominciavano a sorgere Comitati rivoluzionari, ed è un’accusa ingiusta e stolta come fanno gli ignoranti di cose armene e gli osservatori superficiali di avvenimenti storico-politici – che gli armeni non si siano mai ribellati ed abbiano sopportato supinamente la tirannide turca. Gli armeni non sono un branco di pecore. Tutta la storia di questo popolo – e sono quaranta secoli – non è che una catena ininterrotta di lotte e sacrifici. L’Armenia simboleggia per eccellenza più di d’ogni altra nazione la ferrea, l’eterna legge che avvince e domina tanto l’esistenza degli individui, quanto quella delle collettività: la lotta.

Le sommosse, le ribellioni furono frequenti, violenti. Basti ricordare, fra cento altre, le epiche gesta di Sassun, di Sunik, di Hagin, ma soprattutto di Zeitun – il piccolo montenegro armeno di 12.000 abitanti appena, assiso sulle vette del Tauro di Cilicia – che si sollevò più di trenta volte, opponendo viva resistenza alle truppe soverchianti, inferocite del sultano e conservando sempre una certa autonomia. Ma all’Armenia era materialmente impossibile liberarsi con le proprie forze dai due imperi più tirannci del mondo – russia e Turchia. D’altronde quale delle nazioni risorte in stato indipendente nell’ultimo secolo – Grecia, Serbia, Romania, Italia – non ebbe aiuto straniero?

Fra le organizzazioni rivoluzionarie si distinsero sopra tutti i Comitati “Drosciagah” e “Henciagh”. Ad essi spetta la gloria di aver sollevato il popolo cento e cento volte contro la più perfida, la più feroce delle tirannidi – la turca – e di aver organizzato nel Caucaso l’accanita resistenza, contro gli attacchi dei Tartari e contro la più potente, la più gigantesca organizzazione poliziesca: la polizia russa. Ad essi l’onore e la gloria della famosa scalata alla Banca Ottomana di Costantinopoli, con la minaccia di farla saltare in aria, se non si dava immediata soddisfazione alle giuste richieste della nazione armena. Ad essi ancora la gloria di aver attentato cin una macchina infernale contro la vita del sultano – contro la vita del successore del Profeta, il califfo di tutti i mussulmani. L’atto era così temerario e di tale difficoltà tecnica, che il Sultano ne fu sbalordito e, per quella volta, non ebbe neppure il coraggio di ordinare i soliti massacri. Anche la rivoluzione giovane turca del 1908, che diede un regime costituzionale alla Turchia e detronizzò quel mostro sanguinario di Abdul-Hamid, che terrorizzava l’impero da qualche decennio, ebbe il fervido e l’efficace aiuto dei rivoluzionari armeni. Lo confessarono gli stessi giovani turchi, i quali in un momento di spontaneità e di ebbrezza, versarono torrenti di lacrime sulle tombe dei martiri armeni, proclamarono altamente che i veri fondatori della Costituzione erano i rivoluzionari armeni, i loro maestri – come li chiamavano essi – poiché tutto era stato organizzato e condotto a termine con l’iniziativa e col valido aiuto di questi. Ahimè! Quella banda di sanguinari e di insensati dimenticò troppo presto le sue promesse e i suoi debiti di riconoscenza verso la nazione armena, Nel 1909, dopo appena otto mesi di fosca ed ignobile commedia costituzionale, i giovani turchi, fedeli discepoli dei vecchi, organizzarono nella provincia di Adana la strage di 30.000 armeni. Se non avvennero massacri anche in altre province armene, ciò fu indipendente dalla “buona volontà” dei giovani turchi…

E ritorniamo ancora alla Russia. Come si disse dianzi, in linea generale, nel Caucaso le condizioni degli armeni erano alquanto migliori, l’atmosfera politica era più respirabile. Essi poterono quindi svolgere, almeno in parte, le doti che loro sono innate e fecero grandi progressi: l’istruzione pubblica, l’industria e le arti presero enorme sviluppo. Purtroppo la politica russa non fu mai stabile a loro riguardo, bensì fluttuante, variabile, mutandosi dalla massima simpatia e benevolenza alle peggiori vessazioni, alle più feroci persecuzioni. Fu soprattutto verso il 1880 che s’inaugurò tale regime di ferocia e di persecuzione, quando nell’antiquata e degenere mente della burocrazia russa nacque la folla idea di russificare gli armeni. Si cominciò a scoprire un “pericolo armeno” da cui l’Impero era gravemente minacciato.

Le due anime dannate di quella odiosa politica furono: Donducoff-Corsacoff, governatore generale del Caucaso, ma sopra tutto il suo successore principe Galitzin. Questo folle sanguinario, tormentato dall’idea fissa che gli armeni – per il grado di civiltà e di benessere economico, per la vicinanza alle frontiere dell’impero per il loro attaccamento al movimento progressista e rivoluzionario – costituivano l’elemento più turbolento e più dannoso alla salute dell’ Impero, d’accordo con il Governo centrale, ideò il suo diabolico programma: sterminare gli armeni, o almeno assestare loro un colpo così terribile – economicamente e moralmente – da non poter più rialzarsi per molti e molti anni. Furono chiuse le scuole e le biblioteche, sciolte le società di coltura e di edizioni, soppressi i giornali, confiscati i beni della Chiesa armena, aizzati i fanatici Tartari del Caucaso contro la popolazione armena. Ancora una volta il sangue armeno corse a fiotti, furono incendiati numerosi villaggi, profanate le chiese e le scuole. Così anche nell’Armenia russa fu seminato dappertutto la morte e la rovina. Ma la reazione – organizzata sopra tutto dai comitati rivoluzionari Drosciagh e Henciagh – scattò violenta, furibonda da parte degli armeni. Si costruissero delle barricate e si ebbero delle vere battaglie fra i Tartari ed Armeni. La famosa polizia russa, i famosi cosacchi, invece di cercare di stabilire l’ordine e la pace fra i combattenti, rimanevano impassibili, o peggio ancora, davano man forte ai tartari. eppure gli armeni, pugnando con disperata energia, ebbero infine il sopravvento. Il Governo russo fu obbligato a cambiar tattica, i beni della Chiesa armena furono restituiti, le libertà di una volta riconcesse, e se è vero che in seguito, con giudizi sommari, molti intellettuali armeni furono esiliati in Siberia, è pur vero che nel 1913-14 la Russia prese l’iniziativa di una conferenza fra le Grandi Potenze, per introdurre finalmente in Armenia le famosissime riforme.

Le Grandi Potenze redassero un piano di riforme e la Turchia – dopo aver opposto, come al solito, varie obiezioni a tale progetto – finì per accettarlo. Ahimè! Lo scoppio della guerra mondiale fece ripiombare tutto nel nulla. Ciò che soffrì in questi ultimi quattro anni la nazione armena oltrepassa i limiti dell’immaginazione umana. La grandiosità tragica del martirio armeno supera ogni visione apocalittica. Le atrocità commesse da parte degli imperi centrali nel Belgio, nella Serbia, nella Polonia, possono dare una pallida idea delle atrocità a cui fu soggetta questa infelice nazione da parte delle orde turche, organizzate dalla “Kultur” e condotte da ufficiali tedeschi. Non faccio retorica; non vi è nessuna esagerazione, i testimoni oculari – numerosi, non sospetti e fra i quali c’è persino qualche tedesco onesto – confermano tale dolorosa ed inoppugnabile verità.

Il Comm. Giacomo Gorrini, nobilissima figura di diplomatico, che copriva l’alta carica di console generale a Trebisonda e fu testimone oculare delle atrocità turche in quella città, al suo ritorno in Italia in un’intervista concessa al giornale “Messaggero” fece in proposito dichiarazioni impressionantissime, che fanno venire i brividi e strappano le lacrime anche al più cinico egoista. Ecco qualche brano dell’intervista: “.. Nel mio distretto – disse il Comm. Gorrini – a partire dal 24 giugno (1915) gli armeni furono tutti internati, cioè scacciati a forza dalle rispettive residenze ed accompagnati dai gendarmi per destinazioni lontane, ma ignote, che per i quattro quinti era… la morte con inaudite crudeltà. Il proclama solenne dell’internamento venne da Costantinopoli: è opera del Governo centrale e del Comitato Unione e Progresso.

“Fu una vera strage e carneficina di innocenti, una cosa inaudita, una pagina nera con la violazione flagrante dei più sacrosanti diritti di umanità, di cristianità e di nazionalità.

“ Di 14.000 circa armeni fra gregoriani, cattolici e protestanti che abitavano Trebisonda, e che mai provocarono disordini né dettero mai luogo a provvedimenti collettivi di polizia, quand’io partii non ne rimanevano più neppure cento !

“ Dal 24 giugno, giorno della pubblicazione dell’infame decreto, fino al 23 luglio, giorno della mia partenza da Trebisonda, io non avevo dormito, io non avevo mangiato più, ero in preda ai nervi, alla nausea, tant’era lo strazio di dover assistere ad una esecuzione in massa di creature inermi, innocenti.

“ Il passaggio delle squadre degli armeni sotto le finestre e davanti la porta del Consolato, le loro invocazioni al soccorso senza che né io né altri potessero fare nulla per loro, la città essendo in stato d’assedio, guardata in ogni punto da 15.000 soldati in pieno assetto di guerra, da migliaia di agenti di polizia, dalle bande dei volontari e dagli addetti al Comitato “Unione e Progresso”, i pianti, le lacrime, le desolazioni, le imprecazioni, i numerosi suicidi, le morti subitanee per lo spavento, gli impazzimenti improvvisi, gli incendi, le fucilate in città, la caccia spietata nelle case e nelle campagne, i cadaveri a centinaia trovati ogni giorno sulle strada dell’internamento, le giovani donne ridotte a forza mussulmane o internate come tutti gli altri, i bambini strappati alle loro famiglie o alle scuole cristiane e affidate per forza alle famiglie mussulmane, ovvero posti a centinaia sulle barche con la sola camicia, poi capovolti e affogati nel Mar Nero o nel fiume Dermen Derè, sono gli ultimi incaccettabili ricordi di Trebisonda, ricordi che ancora a un mese di distanza, mi straziano l’anima, mi fanno fremere. Quando si è dovuto assistere per un intero mese a siffatti orrori, a torture così prolungate, nell’assoluta impotenza di agire come avrei voluto, viene spontanea, naturale la domanda se tutti i cannibali e se tutte le belve feroci abbiano lasciato i loro recessi e nascondigli o le foreste vergini dell’Africa, Asia ed Oceania per darsi convegno a Istambul!

“ Permetta anzi che io chieda a questo punto il mio colloquio e che dichiari che questa pagina nera della Turchia merita la più assoluta riprovazione e la vendetta della intera cristianità. Se sapessero tutte le cose che so io, tutto quello che ho dovuto vedere coi miei occhi e uidire colle mie orecchie, tutte le Potenze cristiane ancora neutrali dovrebbero sollevarsi contro la Turchia, gridare anatema al suo incivile governo ed al suo feroce Comitato “Unione e Progresso” e ritenere responsabili anche gli alleati, che tollerano o coprono col loro aiuto delitti esecrandi che non hanno eguale nella storia antica né moderna.

“ Onta, orrore, obbrobrio!”

Ora, se pensiamo che le atrocità descritte dal Commendatore Gorrini con accento commosso e con vivaci e con vivaci colori si riferiscono ad una sola città; se pensiamo che tali atrocità furono ripetute col furore sanguinario, con la medesima ferocia in cento città ed in mille villaggi dell’Armenia e dell’Anatolia, la nostra mente può cercare allora – ma cercare solo, senza riuscire di certo – farsi un concetto dell’immensità della tragedia armena.

Non voglio dilungarmi di più su questo penosissimo, straziante argomento. Ma chi, dotato di nervi saldi, robusti voglia sapere i particolari raccapriccianti del martirio armeno, non ha che da leggere – tra i tanti opuscoli e libri scritti in varie lingue – “The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire: 1915-1916” che è la storia documentata delle atrocità commesse contro gli Armeni, in tutto l’impero ottomano, e presentata da lord Bryce al Ministro degli Affari esteri inglese d’allora: Visconte Grey of Fallodon.

La storia si ripete. L’errore colossale, la colpa imperdonabile che aveva commesso Bisanzio non seguendo la saggia politica di Roma – un’ Armenia indipendente, baluardo inespugnabile agli attacchi dei barbari d’Asia – e più tardi l’Europa delle Crociate – abbandonando alla sua sorte il regno dell’Armenia Minore – ripetè con maggior colpa, con maggior cinismo, a distanza di secoli e ad onta di luminosi, eloquenti insegnamenti del passato, l’Europa del secolo XX.. le Grandi Potenze – o per ragioni di morbosa sentimentalità o per ragioni di interessi mal compresi – trattarono sempre con ina certa tenerezza quell’organismo mostruoso che è lo Stato turco, quella massa amorfa, malvagia e incosciente che ha nome popolo turco. Nè le atrocità dei vecchi turchi, nè la crudeltà dei giovani – più veroci e sanguinari dei primi – non bastarono a scuotere la sensibilità pachidermica delle Grandi Potenze. Mentre quel popolo meraviglioso che ha una storia quattro volte millenaria; quel popolo che fondò l’immenso impero di Tigrane il Grande ed il glorioso regno di Leone il magnifico quando le nazioni d’Europa spasimavano ancora nelle tenebre; quel popolo che produsse e produce tutt’ora illustri campioni nella letteratura, nella filosofia, nell’architettura, nelle scienze.., insomma in ogni campo dell’umana attività in cui sogliono eccellere le razze elette; ol popolo che ebbe dalla storia l’atroce eppur gloriosa missione di difendere la civiltà greco-romana nelle lontane terre d’Oriente offrendo per secoli e secoli il petto dei suoi figli ai tremendi colpi di tutti i barbari d’Asia…ebbene si lasciò che quel meraviglioso popolo venisse trucidato, massacrato, dibattendosi in continua e terribile agonia in mano al peggiore dei carnefici. (…)

Quale sarà l’assetto che l’Intesa deve dare alla martire Armenia quando essa si presenterà al Congresso della Pace lacera, straziata, insanguinata, ma fiera e a fronte alta? (…)

Possa quel giorno – sognato dal popolo armeno con tanta fede e con indicibile ansia – non essere lontano! Giorno grande, solenne, in cui la novella Europa, potrà finalmente salutare la risorta Armenia con le nobili parole che Anatole France pronunziò alla Sorbona, il 9 Aprile 1916, durante l’imponente manifestazione pro Armenia: “Sorella, alzati, non soffrire più! Tu sei libera d’ora innanzi di vivere secondo il tuo genio e la tua fede”.


L’apoteosi di Mazzini.

L’indipendenza armena e la missione d’Italia.

Il grande sogno di Giuseppe Mazzini sta per avverarsi. L’ideale sacro a cui egli consacro’ tutta la sua vita, il grande principio – principio di nazionalità – per cui egli dalla sua prima gioventù fino alla morte, per quaranta anni di seguito, non si stanco’ mai di combattere con la fede e la tenacia dell’Apostolo, sta per trionfare. Nessuno come lui ebbe una visione così chiara della lotta gigantesca, ma fatale, che andava addensandosi sull’ Europa. Egli, con l’ala del genio che non conosce limite nello spazio e nel tempo, profetizzò persino nei minimi particolari la grande guerra di liberazione dei popoli ed il raggruppamento di tutte le democrazie del mondo, contro la coalizione degli imperi autocratici.

Quale meravigliosa divinazione dell’intervento della grande democrazia insulare nella mischia, quando fino dal 1859 egli ammoniva severamente l’Inghilterra: “ E voi, nazione libera e forte, voi che vi dichiarate credenti nella verità e nella giustizia, direste: fra il male ed il bene rimarremo neutrali, spettatori impassibili? E’ la parola di Caino.” La Patria di Gladstone non poteva scegliere la parte di Caino.

E chi, in verità, più del Presidente Wilson – il più autorevole ed il intrasigente dei mazziniani – seppe dare al grande conflitto il suo vero significato con eloquenti e chiare parole, con atti energici e tenaci, indirizzandolo sulla via maestra che conduce alla soppressione di tutti i tiranni, alla liberazione di tutti gli oppressi ? E che dire dell’intervento italiano ? Chi non ricorda i lunghi mesi di neutralità, di vigilia angosciosa, in cui tendenze opposte pro e contro l’intervento si cozzavano violentemente, e i seguaci del gretto egoismo e del falso internazionalismo, unitamente agli agenti degli imperi sopraffattori adoperavano i mezzi più insidiosi e più perfidi per inchiodare l’Italia nella più obbrobiosa inerzia e per sbarrarle la via tracciata dai massimi artefici del Risorgimento? Invano! Le ruote della Storia debbono seguire il loro corso fatale, irresistibile, rovesciando ogni forza, ogni ostacolo. Lo spirito di Mazzini, aleggiando sulla penisola guidò la nazione verso i suoi alti destini. Egli aveva lanciato i suoi roventi strali contro i fautori della neutralità, allorquando una guerra di libertà e di nazionalità si combattesse nel mondo. Egli aveva segnato il posto di gloria e d’onore dell’Italia nel prossimo conflitto europeo, quando scriveva con frase romanamente scultoria e con solennità profetica: “L’Italia e l’Europa camminano lentamente, ma sicuramente, come la giustizia di Dio, alla crisi suprema, alla grande battaglia fra libertà e despotismo.”

Ormai è prossimo il giorno in cui la rinnovata umanità comincerà la sua nuova e luminosa storia. Spunta già l’alba radiosa in cui i popoli oppressi, dopo aver scosso il giogo schiacciante del secolare servaggio, si libereranno sulla via maestra del progresso e della civiltà. Gli ultimi dei, gli ultimi tiranni tramontano, per seppellirsi in eterno negli abissi più profondi della Storia. La nazione di anima profondamente pagana, che volle sollevare dalle loro secolari tombe glia ntichi dei, e trascinare l’umanità dinanzi agli altari da tempo abbattuti di Wotan, di Thor e delle Walkirie; la nazione possente e orgogliosa, che per effetto di follia collettiva volle deviare con inaudita violenza il corso della Storia e sommergere i popoli nei tempi del più tirannico e sanguinoso assolutismo, vede avvicinarsi – dopo essersi attirati l’odio e la maledizione del mondo intero – l’ora dell’espiazione delle sue gravi colpe, dei suoi orribili delitti.

I due Stati più anacronistici del secolo XX – lAustria e la Turchia, l’impero della forca e l’impero dei massacri – che si erano agggiogati al carro della Germania, sperando di salvare i loro putridi organismi dalla dissoluziione, crollano sotto i colpi mortali delle nazionalità oppresse e sotto le cannonate liberatrici dei legionari delle democrazie. Terribile ironia della Storia! La guerra mondiale, che secondo i loro infernali calcoli doveva salvarli dallo sfacelo, li conduce inesorabilmente e simultaneamente – come aveva augurato e profetizzato Mazzini – al crollo definitivo. Sulle loro rovine s’innalzano nuovi Stati, collocati sulla base granitica del principio di nazionalità. I popoli oppressi sotto il tallone tedesco ed austro-ungarico ebbero il meritato riguardo da parte delle nazioni e governi alleati. L’intesa ha già sanzionato con solenni dichiarazioni la costituzione in Stati indipendenti delle nazionalità oppresse dall’Austria-Ungheria. Non così per le nazioni oppresse sotto il giogo turco. I difensori della libertà e della giustizia fecero solo dichiarazioni vaghe per l’avvenire di quei popoli. E sopra tutto una nazione – la nazione armena – che per le sue tradizioni, per il suo tenace attaccamento alla civiltà occidentale e per il contributo che recò fin dalla prima ora alla causa degli Alleati, avrebbe dovuto meritare maggior riguardo, maggiore attenzione da parte di essi, fu abbandonata quasi nel dimenticatoio. In Italia, non mancano da parte del pubblico dimostrazioni di simpatia e solidarietà per la causa armena: conferenze per illustrare il martirio e l’eroismo di questo popolo, comitati per affermare il diritto di essi all’indipendenza. ma l’Italia ufficiale dimostrò quasi nessun interessamento al problema armeno, fingendo talora di ignorare persino che esisteva da decenni sul tappeto della diplomazia europea una questione armena, oppure pronunciandosi – caso raro – in termini vaghi e troppo diplomatici. Nel passato, non erano mancate in Italia anime nobili e generose che avevano rivolto la loro mente sulla dolorante questione armena. Oltre a Giuseppe Mazzini, che col suo grande cuore e con la sua vastissima esperienza, aveva abbracciato la causa santa di liberazione di tutti i popoli oppressi, profetizzando il contemporaneo crollo degli imperi austro-ungarico e ottomano, un latro Grande italiano – Francesco Crispi – aveva manifestato il suo autorevole parere sul problema armeno, in una lettera di eccezionale importanza, scritta da Napoli il 3 febbraio 1897 e indirizzata a Saverio Fera, Gran Maestro della Massoneria italiana di rito scozzese, presidente del Comitato pro Armenia costituito allora a Firenze, in difesa dei diritti della nazione armena: “Ebbi la vostra del 17 gennaio e se non mi affrettai a rispondere dovete comprendere il motivo. Per undici mesi continui, dopo aver lasciato il potere, mi ritirai dalla vita politica attiva ed oggi scrivo a voi personalmente con preghiera di non dare pubblicità alla mia lettera. La causa del vostro Comitato patrocinata è sacra, ma i Governi che dovrebbero interessarsene sono insensibili ed i popoli impotenti. Infatti dovete ammettere che la voce di Gladstone, nella libera Inghilterra, rimase inascoltata e non trovò eco nel continente. L’Armenia è in peggiori condizioni della Polonia. L’Europa è così crudele verso quella nazione che non riconosce per la medesima il territorio politico suo. Nel trattato di Berlino del 1878, si dispose dei porti e delle città che dovrebbero appartenere all’Armenia, e le Potenze affidarono allora al beneplacito della Turchia le riforme che avrebbero dovuto fare. “La sublime Porta, è detto nell’artcolo 61 di quel trattato, si impegna a realizzare senza ritardo i miglioramenti che esigono i bisogni locali delle provincie abitate dagli armeni” Abitate dagli armeni: capite? Sono passati 18 anni, e gli assunti impegni della Turchia, si esplicarono nelle carneficine e negli incendi onde furono desolate le provincie abitate dagli armeni. Al 1895 partirono per l’Oriente le squadre delle grandi Potenze: la sola Inghilterra aveva 18 navi e tutti credettero che giustizia sarebbe stata fatta a quel popolo oppresso. Sapreste dirmi i risultati di questa spedizione militare? Le corazzate tornarono nei loro porti. Dopo di ciò che sperate di fare a pro degli armeni? Ci vogliono tempo e denaro, per una impresa di tanta entità, e voi coi vostri Comitati non potete raccogliere che aspirazioni e speranze, che non valgono a correggere o a guarire il Governo turco. L’Italia ha molti guai in casa sua per non poter estendere la sua azione a benficio di altri popoli. La Francia repubblicana continua le tradizioni dei suoi Re, e oggi, passando sul cadavere della plonia, va a Mosca a stringersi in fraterno amplesso con lo Czar. L’inghilterra è la Potenza che forse avrebbe il desiderio di redimere l’Armenia, ma da sola non vorrà impegnarsi in una guerra. La Russia non può sciogliere la questione armena, perchè ha mezzo popolo armeno sotto il suo impero: avrebbe interesse di prender l’altra metà, ma l’Europa non lo consentirebbe. Del resto lo Czar, dopo aver assonnato il sultano e fattosi suo protettore, prefefrisce attendere il momento opportuno per attuare i suoi disegni in Oriente. Quando verrà l’ora estrema dell’eterno ammalato, forse la diplomazia avrà un pensiero per l’Armenia. Ho detto abbastanza. Non avevo intenzione di scrivere come ho fatto. Carlo Alberto, quando cospirava, aveva inciso sulla carta su cui scriveva: Aspetto la mia stella! Povero Re! Invocò il suo astro quando l’Italia, seminata di nubi, non era pronta a rendere la luce e finì in esilio. Oggi anarchici e preti impediscono il risorgere della nazionalità, predicando le lusinghiere teorie dell’umanità nella quale si confondono i popoli di ogni sangue, di ogni razza, di ogni religione. Queste teorie, lo sapete, sono la negazione della patria. Sanguina il cuore. Gli orrori della Bulgaria non furono così crudeli come questi dell’Armenia; quelli trovarono uno Czar vendicatore ed un Congresso europeo che proclamò l’indipendenza di quel popolo. Aspettiamo, pensiamo ai casi nostri affinchè meglio costituiti e veramente liberi, possiamo essere abbastanza forti per dare la libertà agli altri. Verrà questo giorno? Non è lecito dubitarne.”

Queste poche righe riassumono meravigliosamente la sventurata e complicata questione armena. E’ il grido di dolore di un’anima nobile, ma desolata a non poter intervenire, in difesa di una giusta e santa causa. L’atto d’accusa, la fiera requisitoria d’un uomo di Stato, con piena conoscenza di causa, contro la tremenda responsabilità dell’Europa dinanzi al martirio armeno. Infine è l’augurio, la promessa che l’Italia in un prossimo avvenire, cresciuto di forza e di prestigio, metta la sua potente spada nella bilancia per la risoluzione del problema armeno. Non è giunto forse il giorno così ardentemente auspicato da Crispi? L’Italia, schierandosi a fianco dell’Intesa non solo a rivendicare le proprie aspirazioni nazionali, bensì in difesa della civiltà e della libertà, dimostrò al mondo che i discendenti di Mazzini non volevano disertare la Storia, mentre si combatteva la grande lotta di liberazione vaticinata dal Grande Ligure. I soldati e i marinai d’Italia, in tre anni d’eroismo, d’abnegazione e di vittorie, diedero la prova più luminosa che la grande e forte Italia sognata da Crispi, era ormai un fatto compiuto. Infine, decretando dal Campidoglio col Patto di Roma il diritto all’indipendenza dei popoli oppressi dall’Impero degli Asburgo, l’Italia riaffermò la sua incrollabile, immutabile fedeltà agli ideali mazziniani. L’Armenia che fu abbandonata nel suo spaventoso servaggio mentre tutti i popoli balcanici venivano sottratti, per opera dell’Europa, al giogo turco; l’Armenia, che fu obliata anche in questi tremendi anni di guerra, mentre s’inneggiava al Belgio, alla Serbia, alla Polonia – nazioni nobili ed eroiche, a cui però la nazione armena è per nulla inferiore – deve ottenere alla Conferenza della pace la sua completa indipendenza nei suoi confini storici. Non solo, anche per l’Armenia si debbono esigere riparazioni e garanzie. E chi più dell’Italia, già soggiogata alla secolare oppressione straniera, può apprezzare meglio il martirio armeno? E chi più dell’Italia, erede diretta e rappresentante più autorevole della civiltà romana, assertrice dei grandi ideali di Mazzini e di Garibaldi, ha il dovere e la missione di patrocinare la causa di questo lontano lembo asiatico della civiltà latina, proclamando solennemente il diritto dell’Armenia all’indipendenza? Non è mazziniano – e cioè italiano – il principio che ogni nazione ha un sacro diritto: il diritto all’indipendenza; che ogni nazione ha un dovere egualmente sacro: il dover ad aiutare gli oppressi ad acquistare l’indipendenza? D’altronde, per un caso fortunato, l’interesse ideale e morale dell’Italia è in perfetta armonia col suo interesse economico e politico, perché l’Armenia si ricostituisca in Stato libero ed indipendente. Infatti, la Germania, battuta ed avvilita, non cambierà d’anima. Nè l’immane dramma degli ultimi anni, nè la più clamorosa sconfitta basteranno a trasformare la barbara natura di quella nazione: l’orgoglio, la violenza e la tenacia sono le sue caratteristiche essenziali. L’impero romano non ebbe mai nemici così accaniti, così tenaci, come i Germani. E il conflitto attuale, non è forse, in ultima analisi, la lotta di una pretesa civiltà superiore – la famigerata Kultur – contro l’insuperabile civiltà romana? I Teitoni furono fra i più refrattari al Cristianesimo – Verbo novello che predicava l’amore e la fratellanza universale. La Chiesa cattolica dovette lottare secoli e secoli per convertirli al cattolicesimo, essi però alla prima occasione se ne staccarono accettando la Riforma luterana. In tale conversione, non si deve vedere tanto – parlo solo della Germania – una convinzione intima, una ribellione di coscienza, ma piuttosto l’effetto di una passione: odio e orgoglio. Dopo Roma imperiale, era Roma cattolica che suscitava l’odio e l’invidia dei Teutoni. Ora, un popolo che ha secolari tradizioni di tenacia e di orgoglio; un popolo che si nutrì da un secolo in qua delle teorie di orgoglio e di violenza di Fichte, di Hegel, di Treitchke e di cento altri, e nelle quali dottrine si devono ricercare i germi del conflitto mondiale, non può trasformarsi da un giorno all’altro. Le commedie parlamentari e le mascherate di democraticizzazione non bastano a cambiare la natura d’un popolo. Ecco perché è necessario mozzare i tentacoli al mostro germanico e inchiodarlo nella sua tana, perché non possa mai più rialzare la testa, mai più risvegliare né i propri istinti barbari, nè quelli dei suoi affini – turchi, magiari, tartari: Ecco perché è necessario creare possenti barriere dappertutto – barriere economiche, politiche e culturali. L’Armenia indipendente, elemento di progresso per eccellenza, costituirà appunto una di tali barriere. E’ con un’Armenia indipendente, elemento di progresso per eccellenza, costituirà appunto una di tali barriere. E’ con un’Armenia indipendente – non soggetta allo straniero, turco o non turco – che l’Italia potrà riallacciare le relazioni commerciali e politiche che furono così cordiali, così strette nel passato fra il Regno d’Armenia Minore e le gloriose Repubbliche Italiane. Ed è un’Armenia libera e indipendente che – custode gelosa e tenace della civiltà romana in mezzo a secolari ed accaniti assalti dei barbari vicini – potrà svolgere a sua volta, liberamente, la sua missione civilizzatrice in quelle contrade asiatiche.

Nella generale liberazione degli oppressi, nell’universale resurrezione dei martiri, l’Armenia – martire fra i martiri – non deve più essere dimenticata. L’Intesa continua a riconoscere il diritto all’esistenza di uno Stato – lo Stato Turco – il quale, nato e cresciuto nel sangue, si sostenne sempre – oggi, come ieri e, state sicuri, anche domani – con l’assassinio e col massacro eretto a sistema di governo. Le democrazie unite in nome del principio nazionale, si ostinarono a difendere il diritto all’indipendenza di un popolo, il popolo turco, il quale, ribelle – per incapacità organica – a qualsiasi civiltà, non possiede quasi nessuno dei requisiti e fattori, materiali e morali, perché una collettività – secondo la scuola italiana: da Romagnosi a Gioberti, da Mazzini a Mancini – possa considerarsi vera nazione e quindi avere diritto all’indipendenza; mentre le stesse democrazie non pronunciarono tuttora nessuna parola chiara, precisa sull’avvenire dell’Armenia la quale, viceversa, possiede tutti i fattori e contrassegni mazziniani per avere diritto all’indipendenza. Delenda Turchia! Bisogna distruggere la Turchia! Bisogna amputare senza pietà quest’organo cancrenoso dell’umanità! L’Intesa si assumerebbe una tremenda responsabilità conservando ancora lo Stato turco – infinitamente più anacronistico e più sanguinario dell’Impero degli Asburgo – ridotto pure ai minimi termini, poiché domani, certamente, la ferocia sanguinaria delle orde turche si riverserebbero sui milioni di cristiani, che vivono alla rinfusa in mezzo alle popolazioni musulmane in tutto l’impero turco. Guai ai popoli non musulmani ultimi rimasti sotto uno Stato turco! Pagheranno per tutti. E’ storia troppo recente l’atroce destino che colpì successivamente i Greci, i Serbi, i Bulgari, gli Armeni… Bisogna liberare l’Armenia: bisogna distruggere la Turchia! Ecco la suprema necessità: ecco il duplice imprescindibile dovere dell’Intesa. Sia Roma, sorgente e maestra del diritto, a riaffermare il più elementare diritto negato per secoli all’armene genti: il diritto alla vita. Sia la Terza Italia, risorta ad unità politica in nome dei sacrosanti diritti di nazionalità, a proclamare per prima, solennemente, il diritto dell’ Armenia all’indipendenza. Sia la grande e forte Italia vaticinata da Crispi – divenuta ormai palpitante realtà storica – a propugnare e a volere fortemente che anche agli armeni sia fatta giustizia completa finalmente, e che lo Stato turco – l’onta suprema che pesa tuttora sul mondo civile – sia cancellato per sempre dal novero degli Stati. E allora – abbattuti gli ultimi idoli, gli ultimi tiranni: liberati gli ultimi oppressi e risorti gli ultimi martiri – le libere nazioni si avvieranno all’adempimento della loro sacra missione; la rinnovata Umanità s’innalzerà verso i suoi alti destini. E la grande idea di Mazzini diverrà la grande realtà.

Torino, ottobre 1918